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Come tre ep in uno, ma anche come tre persone dal carattere differente in una stessa stanza: il nuovo lavoro di Moro & The Silent Revolution si chiama High & Slow e comprende ben 23 pezzi, suddivisi in tre sezioni: “High”, apertamente folk-rock, “Slow” che apre la porta a suggestioni elettroniche e “Silent”, che si affaccia su discorsi strumentali e post rock. Abbiamo intervistato Massimiliano “Moro” Morini, che con questo progetto è arrivato al quinto album.

Puoi raccontare in che modo e con quali idee e intenzioni vi siete avvicinati a questo nuovo e quinto disco?

Con la solita idea: scrivere cose che diano piacere agli ascoltatori; che li facciano star bene, o anche male, ma nel modo giusto e non per fare i fenomeni. E poi con l’intenzione di fare qualcosa di nuovo – e non dico nuovo in senso assoluto, che sarebbe pretenzioso e impossibile, ma nuovo rispetto a quel che avevamo già fatto. Alla fine è come se avessimo preso due modelli di canzone che c’erano anche negli album precedenti (il brano folk-pop da viaggio in macchina e la canzone intimista con un po’ di elettronica) e li avessimo portati agli estremi.

Ma è stato un processo naturale, non il “frutto di un progetto”, come dicono i Testimoni di Geova. È una cosa nata anche dai concerti, dove ci siamo resi conto che funzionano la concisione punk e la rarefazione prossima al silenzio, e tutto quello che sta nel mezzo si perde un po’.

Domanda ovvia: da cosa nasce la tripartizione del disco e perché hai scelto di separare anziché di mescolare le canzoni?

In parte per quel che ho detto sopra, in parte perché predico bene e razzolo male. Da anni dico che i dischi come forma ormai contano poco, che sono i singoli brani, i video su Youtube, che attirano ascoltatori. Insomma, faccio quei discorsi da anziano che ha ormai perso ogni contatto con la realtà. Poi però arriva il momento di fare uscire un album nuovo, e allora mi viene da concepirlo come una cosa organica.

Qui uso la prima persona, anche se i brani non li ho scritti solo io (ci sono anche Lorenzo Gasperoni e Francobeat Naddei), perché la concezione organica è mia, e Francobeat, per dire, non era d’accordo: lui avrebbe tenuto del tutto separate le cose. Ma per me funziona così perché si parte dal rumore (High) e si arriva al
silenzio, passando per l’elettronica (Slow) e per la trasformazione delle voci in meri strumenti (& Silent).

È un viaggio dal rumore al silenzio: detto così sembra sia un’ovvietà sia un maledetto concept album, e invece è solo una descrizione dell’effetto che fa.

C’è uno stacco a volte radicale tra l’umore delle canzoni. È stato un periodo di sbalzi oppure è la tua palette umorale tipica a essere così vasta?

Sai che faccio fatica a rispondere? Forse sono più ondivago o meno allegro – ma in realtà non sono mai stato particolarmente allegro. Più che altro, fino a poco tempo fa, riuscivo a scrivere solo quando stavo bene. Anche adesso, in un certo senso: ma mi sento più in diritto di far passare sentimenti poco piacevoli o edificanti.

Saranno gli anni che passano, e le inibizioni che se ne vanno. Sarà che un po’ di cose le ho pubblicate e non ho più quella smania di presentare le canzoni
come fossero biglietti da visita. Però hai ragione: è un disco più umorale, e un po’ più oscuro. Oh, non lo dico per compiacermene, eh? Non tollero i finti poeti della tristezza.

Ti autodefinisci “coheniano di vecchia data”: da dove nasce questa (singolare) reinterpretazione di “Sisters of Mercy”?

Le ho sempre suonate, le canzoni di Leonard Cohen – Hallelujah, Bird on the Wire. Questa versione mi piaceva più delle altre, per come è venuta fuori. Cohen l’ho sentito per la prima volta all’Università, presentato da una professoressa di letteratura canadese entusiasta. Ricordo di aver esultato, fra me e me: era come trovare la soluzione di un problema che non avevo nemmeno formulato.

Versi perfetti, concisi, devastanti ma non seriosi, scritti all’unico scopo di arrivare a dire le cose. L’unico problema di Cohen – ma è una manna per tutti gli altri – è che nel suo repertorio ci sono molte canzoni splendide arrangiate malissimo, con un cattivo gusto che dà quasi i brividi. E poi era ora di farlo: è dal 2010 che andiamo dicendo, per fare gli stupidi, che il nostro obiettivo è cantare “canzoni di Paul Weller con i testi di Leonard Cohen” – insomma, vedere se si può scrivere puntando a quella qualità dei testi (“puntando a”, non centrandola), ma dentro strutture più pop e veloci.

Moro & The Silent Revolution: qualche preferenza per gli “ascoltatori forti”

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Come nasce “Homegrown”?

Nasce chitarra e voce, molto folk – ed è una canzone sull’infanzia e l’adolescenza. Io a volte provo nostalgia per cose che – me ne rendo conto benissimo – non erano granché e non mi sembravano granché neanche allora, mentre le vivevo. È il sentimento di questa canzone – una nostalgia dell’avere nostalgia, una cosa che non sa bene dove appoggiarsi e si arrotola su se stessa.

Quel che è certo è che oggi fingiamo di esaltarci molto di più, e ci emozioniamo molto di meno, “for a cheaper thrill” (per un brivido da poco). Ma forse qui dovrei parlare solo in prima persona. Comunque sono innamorato di questa canzone – e posso dirlo perché ormai è quasi altro da me, dopo che Francobeat l’ha manipolata con i suoi synth, il basso new wave e la batteria elettronica. Sono suoni perfettamente appropriati.

Sei al quinto disco di una carriera molto ben avviata, lodata dai critici e molto ben vista anche a livello internazionale. Quali sono gli obiettivi che ti poni, posto che immagino che di arrivare al “grande pubblico” ti interessi relativamente?

Non è che non mi interessi, è che ho capito che non si può fare – non in questa forma, non cantando queste cose, in inglese, dall’Italia. E quindi forse sì, alla fine non mi interessa – o accetto il fatto che qualsiasi cosa io possa scrivere non sarà mai popolare in quel modo lì, se non per caso. Il primo obiettivo è scrivere cose di cui essere contenti anche fra dieci anni, e che diano qualcosa agli altri: se possibile a diversi livelli, dall’ascolto svagato a quello coi testi sott’occhio.

Il secondo obiettivo, nel senso che cronologicamente viene dopo, e non può influenzare la scrittura, è quello di arrivare a un pubblico, di mantenere il proprio pubblico, di allargarlo un po’. Magari, anche se è brutto ed elitario ammetterlo, con una qualche preferenza per gli “ascoltatori forti”.

Quali sono fra i tuoi colleghi quelli che stimi di più in questo momento in Italia?

A parte quelli con cui suono, sul disco o dal vivo, ora come ora ho in mente due nomi – ed è gente che fa musica completamente diversa. I Cut sono un gruppo live eccezionale: il genere che fanno è lontanissimo dai miei gusti, eppure mi divertono lo stesso. Giacomo Toni scrive canzoni “fatte col legno”, per citare un suo verso. Poi ce ne sono molti altri che scrivono musica rispettabile e a volte bella.

Ma penso soprattutto a gente sopra i trenta, trentacinque anni: dei gruppi di ventenni capisco che hanno una freschezza che arriva ai loro ascoltatori, e non c’è niente di male – ma è come se il mio palato fosse guasto, per certe cose.

Moro & The Silent Revolution traccia per traccia
moro coverIl disco apre con la parte High e con Ready Steady Go, canzone energica e con evidenti influssi country-folk ma interpretati in senso contemporaneo, e qualche eco del miglior Badly Drawn Boy udibile qui e là. Deputy Brother abbassa i ritmi e ammorbidisce le sonorità, accetta qualche influenza pop in senso beatlesiano e apre a un’atmosfera soffusa. Going down torna a correre un po’, anche se con moderazione.
Le suggestioni country tornano ad affacciarsi con Leftovers. Idee più soft e chitarra acustica ben impiegata fanno da contorno a Beautiful Freaks, altro pezzo adatto a mettere in evidenza una voce dai toni caldi e un po’ vintage. Ecco poi la cover di Sisters of Mercy, verosimilmente concepita molto prima della triste dipartita di Leonard Cohen, divertente e quasi blasfema nella sua accelerazione e nella sua voglia di leggerezza.
Tense riporta, almeno in parte, l’ordine, anche se il passo e il cantato fanno pensare a influenze di stampo velvettiano, rafforzate dall’uso delle chitarre. Truce gioca con il chiaroscuro, mette di nuovo al centro la chitarra, si dipana in modo fluido. Morbida Words, che chiude la parte “High” con umore tranquillo e solare.
La parte Slow del disco apre con Homegrown, che chiarisce che cosa intendano Moro e compagni per “Slow”: pezzi non necessariamente lenti, ma con qualche impatto dell’elettronica e un mood moderato, quasi notturno. All The Stars parte tra suggestioni noise, ambient e synth pop. Questa parte del disco è spesso contrassegnata da voci che parlano in sottofondo, come se ci fosse del non detto da esprimere, al contrario che nella parte “High” dove tutto era solare e dichiarato. Il fantasma dei Radiohead si palesa sullo sfondo, mentre si passa a Someone, delicata e con legami fortissimi con il songwriting internazionale alternativo.
Anche Low sceglie panorami particolarmente soft e con qualche punta di malinconia. Gone conferma la propensione per ballate brevi e nostalgiche dal titolo brevissimo. Ci si può chiedere dove sia finito tutto il buon umore della prima parte del disco.
Si giunge così alla parte Silent, quella strumentale, che apre con Stand stil, episodio portatore di una certa delicatezza acustica. April fa pensare a qualcosa degli Smiths, con uno sguardo però più psichedelico. Morning Sun utilizza anche un sample vocale, ma soltanto come strumento aggiuntivo. In questa parte la serenità sembra essere tornata e così un certo umore piuttosto assolato.

Con Saint si torna a percorsi più intimi, mentre Country Lights si affida a discorsi di chitarra acustica quasi rinascimental/barocchi. Con Orange Room si passeggia su scenari crepuscolari, mentre Lie to me usa i cori e Once upon a tree dipinge acquerelli dalle tonalità leggermente più scure. Si chiude con Travel Memory, linee semplici e chitarra acustica a terminare il discorso.

Si diceva dei toni e dell’impostazione vintage del cantato, il che non significa che Moro canti in modo datato. Consapevole delle sonorità contemporanee, sceglie con cura quando averci a che fare e quando invece il mood debba essere nostalgico. Il risultato è un disco sfaccettato, aperto alle influenze, ben scritto e molto ricco.

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