Un giorno all’alba (distr. Artist First) è il disco d’esordio dei Sanlevigo: un concept-album di tredici tracce che parla della fine di un amore, della rabbia, dello sconforto e di una lenta rinascita. A unire le canzoni, al di là della radicata attitudine pop-rock e un’attenzione quasi maniacale ai suoni, la teoria delle cinque fasi del lutto di Kubler Ross, considerata la fondatrice della psicotanatologia, secondo cui gli stati emozionali che ogni essere umano attraversa nella perdita sono la negazione, la rabbia, il patteggiamento, la depressione e l’accettazione.
La narrazione, quasi si trattasse di un sogno, procede al contrario: a partire dai ricordi, ricostruisce i pensieri, le esperienze e il percorso d’accettazione del protagonista, alternando sensazioni, momenti di lucida consapevolezza e brevi interventi della persona amata, rappresentata dalla voce di Alessia Amendola. Assecondando una climax discendente, si passa dalle canzoni più aggressive, dove l’altro viene pensato come l’unico responsabile della situazione, per passare ai toni più morbidi della rassegnazione, quando la colpa viene attribuita prima al destino, poi al tempo e infine alla casualità degli eventi.
Un lavoro durato quasi quattro anni in cui abbiamo unito molte delle nostre esperienze personali per arrivare a trovare una storia in grado di rappresentare ognuno di noi, delineando la figura del protagonista come fosse l’archetipo di quei ragazzi nati nella seconda metà degli anni ’90. La gioia, la delusione, la rabbia, la felicità e il dolore si mescolano e si confondono di continuo nel corso dell’album proprio perché volevamo restituire in maniera veritiera la complessità dell’animo umano e la potenza, in senso positivo e negativo, di un sentimento come l’amore. Ispirandoci ai grandi concept del passato come “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” dei Beatles ma anche ad alcuni episodi più recenti come “The Suburbs” degli Arcade Fire, abbiamo provato a scrivere una storia costituita da 13 piccoli capitoli uniti fra loro.
Sanlevigo traccia per traccia
Si parte in modo particolarmente intenso: Il fondo dei ricordi è un’introduzione narrata e breve, che lascia spazio a Le mie ombre, che racconta del dolore in modo oscuro e particolarmente sofferente. “Sì/sono ancora vivo/e con le cicatrici addosso”.
Si alzano i giri del motore con Mille fiori, primo brano capace di alzarsi un po’ dalle oscurità. Anzi si fa rumorosa e vibrante, mettendosi in linea per un rock che fa leva sulla sezione ritmica. “Spiegami come puoi ridere senza me?”
In nessun luogo, ovunque è un altro recitato che fa da trait d’union e che parla comunque di luce. Ma il dolore è tutt’altro che finito, come dimostra un altro brano ruvido come Un pugnale nel cuore.
I rimpianti salgono, con qualche riferimento biblico e mitologico (e a Mozart e Kierkegaard, apprendiamo dalla presentazione del disco), all’interno di Nei panni sporchi di Venere, ballata di resa più che di lotta.
C’è il pianoforte a orientare Perdersi, sommessa e ancora impegnata a distillare il dolore goccia per goccia. Interviene poi un basso piuttosto muscolare a fornire nervatura alla canzone. Il brano, oltre che centro e perno del disco, è sostanzialmente una piccola suite in tre movimenti, a svelare ulteriormente le influenze classiche e progressive della band, con cambi di tempo e inciso recitato in mezzo.
Scelte non scelte stanno al centro di Destini diversi, un po’ più disinvolta ma non per questo meno addolorata, sotto l’egida delle Moire. Più sfumate le sensazioni di Un’insurrezione, che rappresenta un tentativo di risollevarsi.
Ci si spinge verso l’Egitto con Shen nella tempesta, brano combattivo che di fatto esprime la volontà di rimanere attaccati ai ricordi. Si viaggia a velocità media lungo La nostra orbita, guidata dal basso e dalla voce, dolce e descrittiva.
Tra mitologia e astronomia, ecco l’ultimo intermezzo recitato, Fobos & Deimos. Si chiude con le lentezze intime di Origami (Ballata dei giorni persi), capace di qualche excursus e comunque non proprio liberatoria.
Oggi si dice che è un “concept” di quasi qualunque album, perdendo completamente di vista che cosa sia effettivamente un concept album. I Sanlevigo invece lo intendono alla vecchia maniera, unendo sia concettualmente (appunto) tutti i brani, sia senza lasciare pause tra un brano e l’altro, offrendo un’apprezzabile unità di senso a tutto il lavoro, sottolineata anche dalle copertine dei singoli e dell’album, che rispondono a una stessa linea grafica e fotografica.
I meriti dei Sanlevigo però non si fermano qui: il disco è composto di canzoni forti, ben scritte e suonate anche meglio, che qualificano la band come una fra le più interessanti del versante alternative rock, capace di qualità e compattezza di suono e di una sostanza, se vogliamo, molto old style senza affatto suonare antica e nemmeno “vintage”.
Genere musicale: rock alternativo
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