Si presentano soltanto come “Twang, gruppo rock emergente di Torino”. La band ha pubblicato il proprio primo ep autoprodotto, dal titolo Nulla si può controllare e hanno una formazione piuttosto classica, che però non ha soffocato le aspirazioni rock della band. Li abbiamo intervistati.
Potete riassumere la vostra storia fin qui e spiegare il nome della band?
Siamo cinque amici di Torino e provincia che nel 2015 decidono di formare una band. Simone, Moreno e Federico provengono dalla scuola House of Rock. Bart ha una formazione classica, ed è laureato in flauto traverso al Conservatorio. Luca, infine, è stato iniziato alla batteria dal padre. Da queste diverse sensibilità, nascono i Twang. Decidiamo di voler sfogare insieme la nostra voglia di suonare rock, e di farlo componendo brani inediti con testi in italiano.
Per il nome non abbiamo saputo deciderci finché Federico non ha puntato il dito a caso su un dizionario: la parola Twang ci ricordava il suono onomatopeico di una corda da chitarra che si rompe. Ci è piaciuto e l’abbiamo adottato. Veniamo tutti da altre band, e trovare occasioni per suonare dal vivo non è stato difficile.
Fra il 2016 e il 2017, calchiamo i palchi del Patchanka, il Samo e Spazio211, e ci aggiudichiamo il secondo posto al contest Pagella Non Solo Rock e il premio Tavagnasco Rock al concorso Senza Etichetta.
“Questo EP è stato autoprodotto e registrato in un garage. Un gioco da ragazzi”. Questa è la vostra autopresentazione. Ok, ma come sono andate veramente le cose?
Siamo tutti molto giovani, dai 18 ai 22 anni, e quel gioco di parole ci diverte, ma sicuramente registrare “Nulla si può controllare” è stato tutto tranne che un gioco da ragazzi: abbiamo sudato ogni singola take, sperimentando e affinando ogni minimo dettaglio, dai suoni dei pedali alle configurazioni dei microfoni; inoltre, alcuni di noi erano decisamente poco in forma, quindi le voci sono state registrate a Torino, in una nostra “saletta”, in un secondo momento.
Anche la questione “mixaggio” è stata impegnativa: ci siamo cimentati (per pura cocciutaggine) in circa una decina di versioni per ogni mix, finché non siamo rimasti totalemente soddisfatti dell’equilibrio sonoro dell’intero ep.
Volevamo che la nostra prima opera fosse realizzata nella più totale libertà, ed è per questo che abbiamo deciso di autoprodurla, cercando comunque di ottenere il miglior risultato possibile: quest’ultimo, sicuramente, risente di alcune ingeuità dovute a pura inesperienza, ma anche esse contribuiscono a rendere l’ep la perfetta fotografia di un momento di maturazione della band, e ne siamo molto fieri.
Come nasce “La legge del più forte”?
“La legge del più forte” nasce come nascono tutti i nostri pezzi: in sala prove, partendo generalmente da un’improvvisazione su uno o più riff, attorno ai quali sviluppiamo un’atmosfera e una struttura più o meno articolata. Parte della sfida sta nel combinare le nostre cinque sensibilità diverse in un risultato coerente, e, soprattutto, fare in modo che le tre chitarre non combattano fra loro.
La scintilla da cui nasce “La legge del più forte” è l’intenzione di scrivere un cupo pezzo blues in cui incastonare un assolo di flauto, e arrivare alla definizione finale del brano ha richiesto quattro mesi di esibizioni dal vivo. Il testo viene solo dopo, quando pensiamo che il brano sia musicalmente solido anche senza parti vocali; l’autore dei testi è principalmente Simone, ma tutto il gruppo collabora alla stesura finale.
In questo caso, si tratta della descrizione di un ambiente costruito su prevaricazione e codardia, raccontato attraverso immagini spudoratamente animalesche.
I vostri gusti possono sembrare piuttosto “vintage”: quali sono i vostri capisaldi?
Siamo tutti sicuramente molto legati al Blues e al caro vecchio Rock’n Roll: ascoltiamo Beatles, Led Zeppelin, Muddy Waters… insomma, i classici. Poi, ognuno di noi dà sfogo alla propria sensibilità: Luca, tra noi, è il più innamorato del suono “Seventies”; Federico ascolta bluegrass e country; Bart è fondamentalmente onnivoro, attratto tanto da Debussy quanto da Gary Moore; Simone e Moreno sono affascinati dalla musica psichedelica.
Ci sono anche molti artisti contemporanei che riteniamo nostri punti di riferimento: Radiohead, Franz Ferdinand, Arctic Monkeys, Muse, Tame Impala sono i primi che ci vengono in mente.
Per quanto riguarda i testi in italiano, i punti di riferimento sono soprattutto Caparezza, Ivan Graziani, Edoardo Bennato… insomma siamo attratti da qualsiasi forma di intelligenza, da qualsiasi parte provenga.
Potete raccontare la strumentazione principale che avete utilizzato per suonare in questo disco?
Ciò che ci ha divertito di più, durante la registrazione, è stato il poter giocare liberamente con i suoni e gli strumenti: fra percussioni, synth, amplificatori, chitarre e pedali di ogni forma e colore, abbiamo avuto a disposizione un arsenale decisamente assortito.
I capisaldi sono stati una vecchia batteria jazz della Gretsch, un sintetizzatore digitale Mininova (il Moog in “Neanche un colpo” e l’Hammond in tutti i pezzi), due amplificatori Fender e un Marshall. Per il resto, fra Gibson Les Paul, Fender Telecaster, Epiphone Firebird e altre chitarre home-made, ci siamo sbizzarriti nei modi più svariati: per esempio, in “Sotto Assedio”, Moreno suona principalmente uno Squier Jazz Bass, ma c’è una sezione, dopo l’assolo, in cui si sente un Epiphone Viola.
Lo “studio di registrazione” è stato l’emblema del “fai da te”: un laptop, Pro Tools, una scheda audio con quattro ingressi, due vecchi microfoni dinamici e due a condensatore (da due soldi) appena comprati.
Potete descrivere i vostri concerti? Quali saranno le prossime date che vi vedranno coinvolti?
Gestiamo i nostri concerti a seconda delle diverse situazioni che ci si parano davanti: nel caso di un contest, per esempio, silenzi e pause ridotti al minimo e pezzi eseguiti in maniera molto rigorosa, senza alcuna sbavatura; se si tratta, invece, di un live un po’ più “libero”, siamo decisamente più tranquilli durante la performance, ci lasciamo trasportare dal momento, e ce lo godiamo il più possibile. In particolare, allunghiamo e modelliamo in ogni modo lo strumentale de “La legge del più forte”, per arrivare con energia e soddisfazione al botta-risposta tra il flauto e gli altri strumenti (un esempio è visibile nel video di “Senza Etichetta”).
A ogni modo, costruiamo dei set asciutti e d’impatto, con spazi minimi o inesistenti fra una canzone e l’altra, e cerchiamo di mantenere sempre alta l’attenzione del pubblico. Parliamo il meno possibile, lasciando che siano i nostri lavori a parlare per noi.
Fra Settembre e Dicembre, suoneremo in qualche locale torinese, come il Lab (in occasione del Salotto di Mao), e stiamo programmando uno spettacolo in un paio di teatri, ma le date non sono ancora ben definite. Si può dire che il concerto più ufficializzato, al momento, è quello che si terrà a Tavagnasco Rock 2018. Nel frattempo, continuiamo a puntare ai contest.
Chi è o chi sono gli artisti indipendenti italiani che stimate di più in questo momento e perché?
Suonando in giro, sia con il gruppo attuale che con i gruppi passati, siamo venuti a contatto con diverse realtà, e ciò che ci ha colpito maggiormente è la variegata scena underground di Torino e dintorni: fra i nostri colleghi ci sono dei nomi decisamente validi, e meritevoli.
I primi che ci vengono in mente sono gli Zyp, un quartetto di giovani torinesi che propone un grintoso Stoner-Blues psichedelico; seguono a ruota gli ipnotici Foxhound e i The Circle, così come gli Psychokiller, i Janaki’s Palace, gli Etruschi From Lakota, gli Only Instant Pets…
Se vogliamo, invece, puntare gli occhi più verso l’esterno, possiamo citare Il Pan del Diavolo, Iosonouncane, o i Calibro35.
Twang traccia per traccia
Si parte dal rock: elettrico, robusto e sporco, con qualche traccia di vintage ma anche con molta energia, grazie alla prima traccia Neanche un colpo. La voglia di suonare in analogico e senza molti compromessi è già evidente. Il fatto che i testi siano “pensati” emerge invece poco a poco.
La legge del più forte pesca dei sottofondi del blues, propone un mood narrativo e alleggerisce il brusio di fondo anche con l’aiuto del flauto. Il pezzo vive di accelerazioni e momenti più oscuri, mettendo in mostra ora i muscoli ora una certa leggerezza.
Anche con Sotto Assedio si parte da fondamenta di blues elettrico, e si dardeggia in totale libertà con una foga che coinvolge tutti gli strumenti. Si rallenta parecchio con Maschera, ultima traccia dell’ep, ma soltanto per lasciare sfogo alla rabbia che si costruisce in modo graduale e anche piuttosto allucinato.
Cinque ragazzi di Torino, un ep molto promettente, molta sostanza: i Twang mettono in fila una serie di fatti, magari la prossima volta potranno cesellare meglio qualche particolare (soprattutto per quanto riguarda arrangiamento e produzione) ma la base sulla quale costruire è già ben presente.