Titolo latino per quella che è, a tutti gli effetti, una nuova partenza: i Van Cleef Continental si ritrovano sei anni dopo Red Sisters e regalano allo stoner (e generi consimili) Unda Maris, il nuovo album.

Il disco contiene sette brani registrati in presa diretta, con pochissime sovraincisioni, in due sessioni: la prima, invernale, in un fienile ristrutturato in Valsabbia, nella provincia di Brescia; la seconda, estiva, all’interno della Latteria Molloy, celebre locale bresciano chiuso per riposo stagionale.

Van Cleef Continental traccia per traccia

Già con la partenza, affidata a Spain, siamo su toni piuttosto aggressivi, salvo qualche passaggio subacqueo. Ma chitarre e sezione ritmica si dimostrano subito in grado di fare molto rumore, pur senza rinunciare alla fluidità del brano e del suono.

Fluidità che rimane protagonista, insieme a una buona dose di chitarre a volume molto alto, anche in Monte Altissimo, salvo arrivare a una deflagrazione finale che scombina le carte.

Si rallenta un po’ con White Rhino, che richiama atmosfere hard rock antiche (primi Deep Purple, giù di lì), con un giro di basso che sembra marchiare a fuoco il brano. Ma che il rallentamento sia stato un episodio lo dimostra Drive, che al contrario acquisisce velocità vicine al thrash e allo speed, con un surplus di aggressività sfogato tutto all’improvviso, con un piccolo inciso di carattere quasi progressive.

Si torna al latino con Heliobatis Radians, che riporta ritmi molto liquidi e veloci ma senza accelerazioni folli, con la sezione ritmica in grande spolvero e tendenze psichedeliche tenute a freno a stento.

Si migra verso l’arabo con Muad’dib (nella lingua del Corano significa “educatore”, ma il riferimento probabilmente è al romanzo di fantascienza Dune, e al conseguente non indimenticabile film, in cui “Muad’dib” è il titolo onorifico del Messia): la cavalcata nel deserto dei Van Cleef Continental, in questo caso, inizia attraverso una tempesta dalle caratteristiche noise, per approdare a una più ragionevole oasi dai colori più vicini al blues, con una lunga prolusione di chitarra. Alla fine, dopo circa dieci minuti, arriva anche il cantato, come una sorpresa dai toni un po’ oscuri.

A The Old World l’incarico di tirare le somme alla fine del disco, su atmosfere piuttosto intime e raccolte, almeno secondo lo standard impostato fin qui dall’album.

Disco notevole quello dei Van Cleef Continental, suonato in apparenza senza sforzo, capace di causare un buon impatto e di appagare non soltanto i fans del genere di riferimento, ma anche di dare un’occhiata (e farsi dare un ascolto) anche dagli appassionati di rock senza steccati precisi.

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