Con la formula, seppure non inedita, sicuramente inusuale, del “double trio”, il sassofonista e compositore Vittorio De Angelis ha pubblicato Believe Not Belong, il nuovo disco. Gli abbiamo rivolto qualche domanda.

Partirei dalle presentazioni: potresti raccontare chi sei per i “profani”? E già che ci siamo ci racconti come nasce la formula del double trio?

Dunque sono un sassofonista e compositore napoletano. Mi sono laureato al Dams di Bologna e poi al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma dove attualmente risiedo. Ho alle spalle molta gavetta nei club e in vari festival, in formazione da leader, con orchestre, ma anche matrimoni, navi da crociera e anche un ingaggio di due mesi in un circo equestre con musica live. Ho suonato in varie città europee e registrato dischi come turnista.

L’idea del doppio trio è nata quasi per caso. Inizialmente volevo usare la doppia batteria perché ascoltando alcuni artisti americani e inglesi come per esempio Kamasi Washington o Shabaka Hutchings la ritenevo una soluzione ritmica molto interessante, e piuttosto che spaventarmi del carico sonoro eccessivo e difficile da gestire su alcuni brani, ho valutato la forza del groove che si raddoppia e di conseguenza aumenta anche lo stimolo ritmico/emozionale. Poi a quel punto ho considerato anche le due tastiere usando un piano acustico e un piano Rhodes, due fiati e ho visto che tutto funzionava alla grande.

Vorrei che mi spiegassi il titolo del disco e da che tipo di atmosfere è nato

L’espressione inglese ‘’Believe not Belong’’ la sentii durante una conferenza religiosa nella quale mi ritrovai per caso a Bologna e ne rimasi affascinato. ‘’Credere e non appartenere’’, penso  sia un concetto che si potrebbe applicare a varie sfere dell’esistenza e della società odierna con dei risvolti che potrebbero risultare molto interessanti. E’ un’idea che si presta a molte riflessioni su come potremmo vivere rispettando un credo ma senza necessariamente essere ingabbiati in strutture e formule prestabilite magari da altri. Questo logicamente è un concetto applicabile anche alla musica. Nello specifico il disco è nato senza seguire un percorso già individuato ma inglobando varie influenze e contaminazioni nate spontaneamente come frutto di ascolti, studi ed esperienze.

Ti va di spendere qualche parola sui musicisti coinvolti nel progetto?

Ho coinvolto in questo progetto persone che ritenevo sensibili a un’idea di musica inclusiva, e la cui profonda conoscenza del jazz si combinasse con la capacità di affrontare e fondere con naturalezza altri linguaggi e stili. I primi musicisti a cui ho pensato sono stati Domenico Sanna e Seby Burgio entrambi grandi pianisti che stimo e soprattutto con cui condivido una grande passione per i pianoforti vintage. Non volendo rinunciare ad uno dei due ho deciso di sperimentare l’ idea della doppia tastiera in cui entrambi si alternassero alle frequenze  basse. 

Domenico Sanna al piano Rhodes e synth bass Minimoog e Seby Burgio al piano acustico, al Wurlitzer e piano Bass Rhodes. Poi per la doppia batteria  Massimo Di Cristofaro, con cui lavoro stabilmente, e Roberto Giaquinto, newyorkese di adozione. Entrambi validi musicisti con un approccio diverso, uno più incline al groove funk e uno con un linguaggio più jazz. Poi ho ospitato alla tromba Francesco Fratini uno dei migliori musicisti della scena jazz attuale e Takuya Kuroda, artista delle Blue Note da NY,  i cui dischi apprezzavo già da tempo. Il risultato è stato interessantissimo ed è andato ben oltre le mie aspettative.

Come nasce l’omaggio a Roy Hargrove in Roy’s Mood?

Roy’s mood è un brano che scrissi molti anni fa seduto al pianoforte del conservatorio aspettando che cominciasse una lezione. E’ una facile melodia che ho conservato gelosamente cercando di non dimenticarla nonostante l’avessi scritta e puntualmente persa nel mio eterno disordine. In quegli anni ascoltavo tantissimo Roy Hargrove e nel comporre cercavo di immergermi nel suo mood. A pochi anni dalla sua tragica scomparsa mi è sembrato doveroso registrare questo brano e dedicarglielo

Come tutti i musicisti, immagino tu stia soffrendo particolarmente la situazione quarantena. Quali sono le prime cose che farai appena “uscito”?

Sicuramente una jam session infinita con i ragazzi del Double Trio.

Vittorio De Angelis traccia per traccia

Con il sax in evidenza ma non certo padrone unico della pista, Black Rain apre il disco. I modi sono quelli del jazz classico, con spazi visibili e ben delimitati, linee fluide, ritmi che scorrono con notevole agilità.

Ci sono i suoni del basso (ma non il basso vero e proprio) a creare le atmosfere notturne sulle quali si muove Roy’s Mood, omaggio a Roy Hargrove, celebrato con il contributo di Takuya Kuroda, morbido e colorato dalle tastiere.

Modalità plastiche e tranquille quelle che si muovono lungo la dorsale di Step Out, con le tastiere ad appropriarsi di uno spazio centrale e importante, incastrandosi tra le uscite del sax.

Più scanzonata e più “urban” l’aria che circola all’interno di Strike, che quasi funkeggia un po’. Si gioca, con la parola del titolo e un po’ anche con i suoni, all’interno di Afrorism, arricciata nell’incipit e poi più distesa, ma con un drumming che non sa stare quieto.

Ci sono sapori vintage all’interno delle cascate di note che si intersecano in Second, che viaggia piuttosto tranquilla. Molto inquieta e vibrante invece l’atmosfera della dinamica Well, che chiude il disco.

Sapienza e gusto si riscontrano lungo tutta la durata del disco di Vittorio De Angelis e del suo “double trio”. Un lavoro ricco di inventiva e costruito con i crismi migliori.

Genere: jazz

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