Testo e foto di Fabio Alcini

Ma saranno cambiati dopo Sanremo? Si saranno lasciati travolgere dal successo? No ragazzi, calma, The Zen Circus rimangono lì dove stavano. Quella che a oggi è la band più credibile e la maggiore fonte di ispirazione almeno per chi arriva dall’indie è sempre lì dove stava. Appino si è tagliato i capelli (ma Karim no, molto no), Ufo ufeggia come sempre, Pellegrini è l’abituale e solida presenza.

La band toscana approda al Circolo Magnolia di Milano in una serata che promette pioggia, e spesso la mantiene. Certo non saranno quattro gocce a intimidire un pubblico fedele, appassionato, partecipe e soprattutto numeroso come quello accorso non soltanto dalla città ma da mezza Lombardia. Come lo so? Quando Appino, durante Pisa merda, chiede a chi viene dalla provincia di alzare le mani, se ne alzano centinaia. Del resto la provincia crea dipendenza, si sa.

L’ingenuo recensore sotto sotto pensa che, essendo uscita da poco la raccolta Vivi si muore (1999-2019), la scaletta finirà per essere più o meno la stessa del disco, magari omettendo gli antichi esperimenti in inglese. Invece la band decide di fare un po’ come vuole (che poi è la vera essenza dell’indipendenza musicale): ovviamente ci sono i successi, ma ci sono anche le classiche “da concerto” e anche qualche excursus allungato e psichedelico, che magari al pubblico interessa meno ma che palesemente ai ragazzi sul palco piace molto.

La partenza comunque è d’impatto: Catene, Il fuoco in una stanza, Non voglio ballare, La terza guerra mondiale, in ordine sparso, fanno saltare il tappo fin dai primi giri. La veste è ovviamente quella live, perciò anche le canzoni teoricamente morbide, morbide in realtà non sono, mettendo sempre a nudo tutta la propria forza interna. Perché non bisogna dimenticarsi che questa è pur sempre una punk band, che magari ogni tanto si veste da qualcos’altro, ma che quando sale sul palco torna veramente agli istinti primordiali.

“Ilenia” e una pausa imprevista

Ilenia arriva piuttosto presto, ed è molto saltata e ballata dal pubblico. Si capisce come l’intento sia quello di caricare a molla tutti quanti, per poi lasciare qualche momento dialettico per quando sarà più tardi. La teoria delle stringhe si dimostra molto nera e cattiva, parecchio punk (appunto) e più aggressiva di quanto si ascolti su disco.

Un’interruzione imprevista si verifica poco dopo: un roadie sale sul palco e parla nell’orecchio alla band che si riunisce rapidamente in un conciliabolo lontano dalle luci. Ma quando ritornano in scena spiegano che c’è stato qualche danno nei dintorni del palco, ma niente di serio. Del resto Ufo aveva appena chiesto di spaccare tutto e semplicemente questi sono fan che rispondono agli appelli.

Ecco appunto la già citata Pisa merda, mentre inizia il dialogo fra Appino e il pubblico e una serie di gag che Ufo rovina sistematicamente. Più bravi a suonare e cantare: sull’idea del duo comico è bene lavorare ancora. C’è spazio per Sono umano, e anche per il nuovo singolo Canta che ti passa, già cantato a memoria dal pubblico e del resto perfettamente omogeneo al resto della produzione del gruppo.

Solito trionfo per Andate tutti affanculo, uno dei cardini del concerto. Spazio anche per L’egoista, sempre molto robusta. Un po’ più tranquillo e ondeggiante il classico Ragazzo eroe, con Appino che passa dall’elettrica all’acustica con grande disinvoltura, e con il classico intermezzo parlato per giustificare la citazione “irrispettosa” di De André. Poi ecco Figlio di puttana, che si presta bene al cazzeggio, compreso uno stacchetto da No pago affitto di Bello FiGo e qualche aneddoto su Ufo stesso.

“Quest’anno siamo stati in un posto…”

Ma ‘sti ragazzi non sono stati anche a Sanremo? Pare di sì, anche se non lo nominano per presentare L’amore è una dittatura (“Quest’anno siamo stati in un posto, ci hanno dato da mangiare bene…”), comunque assorbita senza scossoni nel corpus del concerto.

C’è anche Nati per subire, con intermezzi strumentali piuttosto significativi: qui e là i quattro scivolano nello pischedelico ma senza tirarsela più di tanto, con le chitarre che dimostrano anche una certa perizia tecnica (ma è meglio non dirlo a voce troppo alta).

Stiamo scivolando verso la fine, con soliti andirivieni dal palco e “questa è veramente l’ultima”. Ma non si può andare via senza ricordare per esempio che L’anima non conta, che si veste di blues e risulta fra le più intense.

Il finale è tutto Viva, giusta conclusione per un concerto come sempre travolgente, divertente, intenso. Dobbiamo cantare ancora il peana degli Zen? Se lo meritano ma probabilmente anche loro preferirebbero di no. Tanto per capire quanto funzionino bene dal vivo basta andarli a vedere: è sempre la soluzione migliore.

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