Che sorpresa eh? Dopo che settimana scorsa avevamo messo in rassegna dieci dischi di band italiane che hanno influenzato l’indie, questa volta tocca alle band straniere. Ci sarebbero lunghi discorsi da fare sull’influenza inglese e americana (ma non solo) sulla musica contemporanea, soprattutto nostra e soprattutto indie. Ma non è che non abbiamo tempo: proprio non abbiamo voglia di farli.
Quello che è evidente è che ci sono alcuni dischi che hanno plasmato il suono di molte delle band di cui parliamo in queste pagine, ed è giusto citarne almeno dieci, e darti l’occasione di ascoltarli tutti.
Nirvana, “Nevermind” (1991)
Questo è soprattutto un discorso di simboli. Perché Bleach, per esempio, è stato forse ancora più di rottura e più influente, per alcuni generi in particolare. Ma lo shock di vedere una band con i capelli sulla faccia, il suono disperatamente grezzo, la voglia e la capacità di spaccare tutto per arrivare in cima al mondo ha notificato ai vari Guns’n’Roses e Michael Jackson che la festa era finita. E ha dato il via a milioni di ragazzi che urlavano con la chitarra in mano.
Sonic Youth, “Dirty” (1992)
Chitarre dissonanti e scordate, voci un po’ buttate lì, personalità stravaganti. E tante onde nel mare del noise, del post punk, dell’hardcore: Kim Gordon, Lee Ranaldo e Thurston Moore sono partiti per distruggere tutto, ma hanno finito, nei trent’anni di carriera insieme, per costruire fortezze. Come questo disco, Dirty, rappresentativo forse del momento migliore della storia della band, quello che va da Daydream Nation a Washing Machine. Se vi chiedete quanto e in che modo questa band newyorkese figlia del punk e del noise abbia avuto impatto sulla scena italiana, provate ad ascoltarli, e poi mettete su qualche disco dei Verdena, degli Afterhours, dei Marlene Kuntz. Qui e là vi sembrerà di sentire l’eco.
The Smiths, “The Queen is Dead” (1986)
Uno dei più grandi dischi di sempre, e già qui ci potremmo fermare. Ma poi bisogna conteggiare quanto le liriche di Morrissey e la chitarra di Johnny Marr abbiano influenzato, a cascata, band e generazioni a venire, da Madchester al Brit pop fino agli ultimi sviluppi dell’indie. Ironia, tristezza profonda, testi intelligenti e canzoni di bellezza incredibile: tutto mescolato in un disco che è il punto più alto della produzione degli Smiths, che già litigavano con la Rough Trade e fra di loro. Se non altro, questo disco e questa band possono insegnare ai gruppi non mainstream di oggi: si può suonare musica meravigliosa e non avere successo mentre la band è ancora in piedi, poi sciogliere la band, ottenere grandi riconoscimenti pubblici e privati, influenzare le generazioni a venire e continuare a scannarsi per decenni sulla spartizione delle royalties. Non è una favola meravigliosa?
Depeche Mode, “Some Great Reward” (1984)
Quando si viene a parlare della cosiddetta “dark wave” c’è una varietà di band che arrivano in mente, a partire dai Cure, Siouxsie and the Banshees, Bauhaus, fino ai Joy Division che pure abbiamo citato in questa pagina. Ma è chiaro che l’impatto dei Depeche Mode, e di questo disco in particolare, con capolavori come Blasphemous Rumours, Master and servant, People are people, l’acidissima Something to Do ha lasciato una traccia inestimabile, sia che si prenda il lato più oscuro del discorso (e molte band italiane lo fanno tuttora, senza compromessi) sia che si affronti la via del synth pop, che con questo album Gore e compagni hanno affrontato e in qualche modo risolto già in partenza.
Joy Division, “Closer” (1980)
Non sarebbe cambiato moltissimo se invece del secondo e ultimo, avessimo scelto Unknown Pleasures, il primo disco della band di Ian Curtis, di brevissima vita ma di grandissimo impatto, come il suo sfortunato cantante e leader. Il lavoro dei Joy Division si presenta come un tutt’uno piuttosto compatto, con un senso di terrore di fondo (basta ascoltare le prime battute di Atrocity Exhibition per capire di che cosa stiamo parlando) che ha influenzato tantissimi generi, dal pop al noise, e che tuttora fa sentire i propri scricchiolii sinistri in tantissimi dischi nostri contemporanei.
Spiritualized, “Ladies and Gentlemen We are floating in the Space” (1997)
Si può dire che questo disco è stato, per la generazione di fine anni Novanta, quello che Pet Sounds dei Beach Boys è stato per quella di una trentina d’anni prima? Tanto ormai lo abbiamo detto. Un capolavoro seminascosto, per certi versi, visto che non ha raggiunto certo i livelli di popolarità di alcuni degli altri album citati in questa pagina. Ma vista la quantità di shoegaze “spiritualizzato” che si riversa tuttora, quasi vent’anni dopo, nelle orecchie di un ascoltatore medio di indie music, anche se non soprattutto italiana, si direbbe che qualcuno lo deve aver ascoltato, questo disco.
Hüsker Dü, “Zen Arcade” (1984)
Formalmente è un disco punk. Ma poi inizi ad ascoltarlo e incontri una ballad veloce e acustica come Never talking to you, psichedelia, qualche idea vicina al jazz, intermezzi di pianoforte, e ti chiedi dove sei capitato. Sei nel Minnesota, stato di nascita anche di Bob Dylan peraltro, e ti trovi nel bel mezzo di uno dei dischi punk più strani e meno punk che siano mai usciti. Ma con questo doppio “concept”, gli Hüsker Dü hanno aperto gli occhi al mondo del punk, insegnato vie diverse, allargato concetti piuttosto ristretti e preparato la strada all’alternative, al post punk, a tutta una serie di band underground.
The Strokes, “This is it” (2001)
Ok, quasi tutto quello che hanno fatto dopo faceva schifo. E molti pensano che neanche questo rockettino fighetto, ripulito, annoiato e fintamente aggressivo abbia lasciato il segno, soprattutto se paragonato al lavoro di coevi tipo White Stripes o BRMC. Poi però metti su cinquantamila dischi arrivati dopo e dentro ci trovi il cantato, le chitarre, le idee di Casablancas e compagni. Sarà per questo che poi le idee le hanno finite.
Radiohead, “Ok Computer” (1997)
Disco indubbiamente stupefacente, soprattutto se si considera che i Radiohead arrivavano da The Bends, che puntava in tutt’altra direzione. Non tanto innovativo quanto Kid A, ma è con Ok Computer che si capisce che Yorke e compagni hanno deciso da che parte si va, con questa cosa del rock’n’roll. E da lì in avanti, soprattutto per le band che hanno una certa idea di rock, di post rock, di connubi con l’elettronica, tutti hanno guardato verso questa band, almeno con l’intento di criticare, magari ammirandone in segreto la capacità di preveggenza.
Sunny Day Real Estate, “Diary” (1994)
Magari non è monumentale come altri dischi citati in questo articolo, ma il primo disco dei SDRE ebbe una certa qual importanza nel delineare alcuni percorsi, che toccavano in certo modo grunge, punk, hardcore, emo e tutti i vari “post”. Il disco, con i suoi titoli che sembrano scelti a caso, la copertina con i pupazzetti, una certa furia e un certo modo di suonare la chitarra, sembra uscito l’altro ieri. Dev’essersene accorto anche Dave Grohl, che quando fondò i Foo Fighters si prese due membri della band (salvo poi cacciarne uno), decretandone in sostanza la fine. Non che abbiano mai venduto vagonate di dischi, ma qualcosa hanno saputo dire, e alcuni hanno ascoltato.