Con l’umile ma malcelata ambizione di fornire ai lettori di TRAKS qualcosa di “diverso”, che si possa leggere accanto, insieme, sopra e sotto la musica che accompagna le nostre giornate, questo agosto abbiamo deciso di proporre o riproporre alcuni articoli monografici che abbiamo scritto in passato, per lo più su altre testate, e che non volevamo andassero persi. Letture estive, ma anche per ogni stagione.

Beat generation: una definizione che lascia il segno. Concisa, immediata e con tutto quel ritmo. Perché beat in inglese significa anche se non soprattutto ritmo: anche i Beatles inclusero la parola nel nome per alterare quel Beetles, quegli scarafaggi originari, così alternativi ma anche un po’ squallidini. Un’alternativa possibile è il concetto di beat come termine gergale, utilizzato soprattutto in ambienti afro-americani, per dire “abbattuta, stanca”.

Solo che beat, in questo caso, non significa abbattimento né ritmo. Anche se c’è ritmo nelle poesie di Ginsberg, di versi di Ferlinghetti, nei romanzi, nelle strade, nelle corse infinite di Kerouac. E fu proprio Jack Kerouac a inventare la definizione di “Beat Generation”. Oddio, inventare. In realtà il primo a usare la definizione sarebbe stato Herbert Huckle, ma in ogni caso fu Kerouac a magnificarne il senso.

Ciò che però conta è che in questo caso la parola fa riferimento alla cultura cattolica, così poco alternativa, ma comunque alla base della storia dello scrittore di On the Road. “Beat” qui infatti significa “beata”, nel senso ottimistico del termine, ma anche in senso sacrale. Una generazione benedetta. Dal talento, dalla felicità, dalla libertà. Di pensiero ma anche di azioni, a volte senza senso e scellerate, ma libere.

Il libro più celebre di Jack Kerouac è senza dubbio Sulla strada, il già citato “On the road”, romanzo epocale e manifesto del 1957 che narra le avventure di Sal Paradise e Dean Moriarty (cioè Kerouac stesso e l’amico e scrittore Neal Cassady) sulle autostrade di Stati Uniti e Messico, tra autostop, jazz, sesso, alcol, benzedrina e sbalzi d’umore, tutto però dipinto con una sorta di innocenza intoccata, di candore di fondo. Anche superando la realtà, orpello del quale si può fare a meno con adeguati aiuti chimici o semplicemente schiacciando sull’acceleratore. L’importante è andare.

Ma non c’è soltanto questo romanzo nella produzione di Kerouac. Ci sono altri romanzi tutto sommato nati dallo stesso terreno di coltura e dalla stessa mistica proto-hippy, come I vagabondi del Dharma o Big Sur. E poi c’è Il dottor Sax.

In arrivo direttamente dall’infanzia dello scrittore, Il dottor Sax è forse l’unico romanzo veramente “stanziale” di Kerouac. E il luogo di residenza è, formalmente, Lowell nel Massachussetts, dove Kerouac nacque e crebbe. Ma la vera collocazione sono gli incubi, le paure, le eccitazioni sessuali, gli incidenti di percorso contenuti nella testa del giovane, cattolico e francofono, figlio di immigrati canadesi.

Jackie Duluoz, l’alter ego letterario di Kerouac, sogna e dal sogno prende vita tutta la vicenda del romanzo, che si basa su un dualismo tra il dottor Sax, appunto, e il Grande Serpente del Mondo, che ha preso la propria residenza in cima a una collina che Kerouac chiama, in modo appropriato, Snake Hill.

Potrebbe essere l’inizio di un romanzo fantasy, ma la fantasia di Kerouac è molto terrena, sensuale anche, a volte sporca, intrisa di fango e sensi di colpa.

Ma chi è il dottor Sax?

Il dottor Sax lo vidi la prima volta, quand’era ancora giovane, nella mia prima infanzia cattolica di Centralville: morti, funerali, la macabra atmosfera, la tenebrosa figura nell’angolo quando guardi la bara del morto nel doloroso salotto della casa aperta con un’orribile ghirlanda purpurea sulla porta

Immediatamente associato a immagini di morte, sempre sfuggente e inquietante, il dottore si rivelerà alla fine una figura quasi del tutto positiva, pur sotto spoglie all’inizio spaventose. Non che sia l’unico ad avere un aspetto terribile.  

Il dottor Sax viveva nei boschi, non era un fantasma cittadino. Lo vedo incedere con l’incredibile Jean Fourchette, il boscaiolo del deposito d’immondizie, idiota, sghignazzante, con i denti anneriti rotti o mancanti – segnato, fanatico d’incendi, leale compagno adorato di lunghe passeggiate infantili… La tragedia di Lowell e del Serpente di Sax sta nei boschi, nel mondo circostante.

Forse nel dottor Sax ci sono Cassady e Ferlinghetti, gli amici sghembi di una vita. Forse c’è Charlie Parker (perché se no “sax”?), sicuramente ci sono i fantasmi dell’infanzia e i sogni della maturità.

C’è un accumulo barocco nelle definizioni del romanzo (“e poi fu una strana nuvola perniciosa a forma di gozzo come un immenso gibboso tenebroso uccello dal becco solenne, ma, cosa inconcepibile, immoto”), decisamente differente rispetto alla prosa più asciutta degli altri romanzi. E un’elevata capacità di creare immagini oscure ma fulminanti.  

Il dottor Sax traversò le tenebre tra i pilastri della chiesa al vespro.

Kerouac scrive il libro nel 1952 a Mexico City (anzi a Tenochtitlan, antica capitale degli Aztechi, come scrive in appendice) e forse proprio per questo lo colora di immagini piene di magia e simbolismo, pur tratteggiate con un occhio più alcolico che scientifico.

Eppure alla fine riemerge il ragazzo cattolico che aveva timbrato in modo definitivo la “generazione beata”: il finale del romanzo si celebra tra un trionfo di campane e di celebrazioni dell’universo che si rigenera.

In fondo si può correre in lungo e in largo su tutte le strade del mondo, allontanandosi da casa senza mai guardarsi indietro. Ma non si può mai fuggire da ciò che si è.

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