“A complete unkown”: Bob Dylan, o l’imperfezione dell’arte #sottotraccia

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Un cinema della periferia di Milano, una sala mezza vuota o mezza piena a seconda del proprio ottimismo, poltrone comode e, sullo schermo, un credibile e quasi sempre imbronciato Timothée Chalamet a impersonare il non facilmente impersonabile Bob Dylan

Questa la cronaca del mio sabato sera di cui arrivo a parlare proprio perché A complete unknown, il film biografico sul cantautore più importante della storia della musica mi ha colpito, a tratti commosso, sicuramente convinto al di là dei propri difetti. 

Ed è proprio dai difetti che si può partire per parlarne: lungo, con qualche imprecisione, discretamente “romanzato” (come si diceva un tempo, per dire che tra una brutta verità e una bella menzogna si era scelta la seconda), “troppo” cantato. Nel senso: a me che questo film nello specifico sia così traboccante di canzoni di Dylan è piaciuto tantissimo. Ma immagino che chi ci vada per conoscere meglio la storia del personaggio ne esca con qualche perplessità. 

Il film ha moltissimi pregi, ma non sono un critico cinematografico e perciò eviterò di soffermarmi sulla recitazione molto convincente di Chalamet, di Edward Norton (irriconoscibile ma credibile nei panni di Pete Seeger), sulla fotografia, il montaggio analogico, l’occhio della madre eccetera. 

Però mi piace di più parlare di imperfezioni perché imperfetto, discutibile, a tratti insopportabile è sempre stato Bob Dylan. Con quella voce nasale, in età più avanzata anche un po’ ronzante. Con quella allergia ai suoi antichi successi, riproposti controvoglia nei concerti di fronte alla folla adorante, ma a volte stravolti, per la frenesia e la voglia di fare qualcosa di nuovo a tutti i costi. E per quella allergia al genere umano, quella timidezza profonda, quella depressione sempre affiorante, che da fuori è facilissimo scambiare per spocchia e snobismo. Ti danno il Nobel e neanche lo vai a ritirare. Il Nobel!

Il film si incentra, come è noto, su due anni in particolare: il 1961, quando Dylan arriva a New York alla ricerca prima dell’ospedale dove sta morendo lentamente il suo idolo Woody Guthrie e poi di un posto nella comunità artistica del Greenwich Village. E il 1965 quando, ormai affermato soprattutto come grande speranza del folk, decide di stravolgere tutto e di suonare in elettrico, facendo imbestialire i puristi e dando il via a una propria, ma anche generale, rivoluzione nella musica americana, alla quale in pochi sfuggiranno. 

Chalamet canta tutti i principali successi dell’epoca e li canta in modo credibile, benissimo, anzi in certi casi fin troppo bene: quanto più sporco e imperfetto dev’essere stato il cantato del Dylan degli inizi, soprattutto quando fumava una sigaretta dopo l’altra nelle stanze d’hotel in cui inseguiva Joan Baez o altre donne, per poi dimenticarle subito in favore di una chitarra e di una canzone da scrivere?

E poi questo viso così bellino, così perfetto per impersonare la gioventù contrastata di oggi. Mentre il Dylan vero anche a quell’epoca era sicuramente meno charmant, benché comunque carismatico, nel contrasto continuo delle emozioni, con un fascino ombroso, che poi è alla base anche della sua produzione musicale.

Sicuramente imperfette dal punto di vista storico sono alcune ricostruzioni, che accorpano episodi successi in momenti diversi e che spostano i personaggi nello spazio e nel tempo secondo le necessità della sceneggiatura. Fossi un purista me ne interesserei, ma per fortuna non lo sono.

Quello che rende senza dubbio benissimo il film è il clima di un’epoca molto passata e irripetibile, ma che ha in comune con questa molto più di quello che si direbbe. Lo si capisce quasi subito nel film, quando Dylan/Chalamet canta Song for Woody al capezzale di Guthrie e parla di un mondo “malato, affamato, stanco e dilaniato/sembra morto ma è appena nato“: niente di più attuale, si direbbe.

E poi rende molto bene la fame e l’ossessione di Dylan, che suona ovunque, a qualunque ora, di fronte a qualunque pubblico. Scrivendo canzoni magistrali quasi senza una pausa. A volte calpestando i sentimenti altrui perché sembra sempre avere qualcosa di più importante da portare avanti, una missione, una forza che lo attrae, forse semplicemente una passione incontrastabile e senza una vera spiegazione.

Il mondo non gli piace e vuole cambiarlo. Ma l’impressione è che, anche una volta cambiato, non gli piacerà lo stesso. Perché non è nelle sue corde accontentarsi o fermarsi. Anche quando convince tutti, non avrà mai convinto se stesso, non si sarà mai sentito arrivato.

Per questo va in contrasto con tutto e con tutti, perfino con una Joan Baez artista, portavoce dei diritti degli ultimi, ma ritratta come sempre troppo “carina”, troppo facile nell’accontentare il pubblico: ti chiedono Blowin’ in the wind, gli canti Blowin’ in the wind, perché è così che dev’essere fatto. Ma per Dylan no: non ci si ferma e non si accontenta nessuno, anche a rischio di spaccare tutto.

Stride il contrasto anche con le altre personalità artistiche incontrate lungo la strada: Johnny Cash, Pete Seeger stesso, che lo lancia, lo vezzeggia, ma alla fine non lo capisce del tutto. L’unico in cui si rispecchia veramente e che sembra capire la sua allergia ai compromessi, pur senza pronunciare una parola (tranne un “Bob” semi incomprensibile), è Guthrie, mentore silenzioso e figura per certi versi monumentale. La sua “macchina per uccidere fascisti”, cioè la chitarra che anche Dylan suona nel film, è lì a ricordarci che certi tempi non sono mai finiti e che certi allarmi suonano ora come allora.

Ma non è (soltanto) un discorso politico quello che emerge dal film. E’ un discorso personale, profondamente umano, ricco di imperfezioni appunto. E’ come quando ami una persona e ne abbracci senza riserve anche i difetti: li conosci, li detesti, ma per certi versi non puoi farne a meno. Così è con la musica di Dylan, che nel corso degli anni ha costituito un corpus senza paragoni, pietra miliare attorno alla quale tantissimi si sono riuniti e ancora si riuniranno, eppure così poco istituzionale, così allergica alla stabilità. Like a Rolling Stone, appunto.

L’arte funziona così: quella alta, quella media, quella di Picasso (“sopravvalutato”, come lo definisce sprezzante a un certo punto Timothée/Bob), quella che si trova nei piccoli club a una certa ora della notte dove qualche cantautore cerca di convincere un pubblico distratto ad ascoltare ciò che ha da dire. L’arte ti mette di fronte alla realtà. Ma una volta che ti ha convinto, è già da un’altra parte a stravolgere i canoni che ha appena istituito. Prova ad afferrarla, se riesci: è già rotolata via. How does it feel?

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