Those who died are justified, for wearing the badge, they’re the chosen whites
Rage Against the Machine, “Killing in the Name”
Si sono riempiti di nero i social, pochi giorni fa. E le piazze, anche in Italia, hanno visto proteste solidali contro il razzismo, dopo che a Minneapolis il poliziotto americano Derek Chauvin ha ucciso deliberatamente il 46enne afroamericano George Floyd tenendogli un ginocchio sulla gola per otto minuti. Otto minuti durante i quali i colleghi di Chauvin hanno assistito alla scena in modo disinteressato, come se si trattasse di una prassi molto consolidata. Floyd era stato fermato per una banconota da venti dollari forse contraffatta. “I can’t breath”, non riesco a respirare, sono le parole pronunciate più volte da Floyd, nell’indifferenza generale.
George Perry Floyd era stato molte cose. Per esempio un rapper: associato alla crew di Houston Screwed Up Click con lo pseudonimo di Big Floyd. Era un ex carcerato: nel 2009 è stato condannato a cinque anni di prigione per rapina aggravata con un’arma mortale. Floyd si è poi rifatto una vita: si è trasferito in Minnesota, ha lavorato come guardia di sicurezza di un ristorante per cinque anni.
Era padre di due figli, Mason e Gianna, di 22 e 6 anni. Era disoccupato per colpa della pandemia: aveva perso il lavoro, come tantissimi americani, per cause collegate alla crisi originata dal virus e all’ordine di residenza dello stato del Minnesota. Originario del Texas, non poteva più lavorare al ristorante di Minneapolis. Era anche malato di Covid-19, come quasi due milioni di americani. Ma non è morto per questo.
George Floyd era anche un atleta, al liceo. Anche bravino: con la squadra di football aveva vinto il campionato statale del Texas, che non è proprio una passeggiata. C’è sempre una storia di sport dietro a una storia americana. Soprattutto dietro alla storia di una persona di colore: un’arma possibile di riscatto, la promessa di una vita migliore. Floyd non ci era riuscito, a fare il salto successivo: arrivato al college si era perso, il suo talento non si era rivelato sufficiente, aveva preso strade sbagliate.
Chi ce l’ha fatta invece è Colin Kaepernick. Quarterback per i San Francisco 49ers, nel 2012 questo ragazzone originario del Wisconsin riuscì a trascinare la squadra fino al Super Bowl, la finale del campionato, perdendo di stretta misura la partita e confermandosi l’anno dopo grazie un’ottima stagione.
Poi qualche infortunio di troppo, un cambio di allenatore non troppo gradito, una certa concorrenza interna hanno fatto sì che la carriera di Kaepernick subisse qualche intoppo.
Ma l’intoppo più grande si consuma a partire dal 2016. Da un paio di partite, durante l’inno americano che si suona prima di ogni singola partita di football (e di qualsiasi altro sport), invece di alzarsi in piedi come fanno tutti, “Kap” rimane seduto per protestare contro i numerosi atti di violenza commessi da agenti di polizia contro persone di colore. Atti che passano sotto silenzio, che spesso vedono gli agenti colpevoli impuniti, se non glorificati, dai loro dipartimenti e dal sistema di giustizia.
Il 1° settembre 2016, prima di una partita di pre-stagione, Kaepernick cambia la modalità di protesta, anche perché rimanere seduto non aveva attirato particolarmente l’attenzione.
Colin piega un ginocchio e mantiene la posizione durante tutto l’inno. Sinistramente, proprio la posizione di Chauvin sul collo di Floyd, quattro anni dopo.
Il gesto ha un’eco molto maggiore e attira l’attenzione di tutta l’America. Molti altri giocatori di football anche di altre squadre si dichiarano solidali con la protesta, qualcuno si inginocchia allo stesso modo, altri organizzano gesti altrettanto clamorosi. Ma ovviamente le reazioni non sono tutte positive: la bandiera, l’inno, l’esercito, la polizia rappresentano il cuore del perbenismo e del nazionalismo americano, simboli intoccabili di una libertà che è vera ed effettiva soprattutto se sei bianco, anglosassone, protestante, benestante.
Nessuno, naturalmente, ha superato in cattivo gusto e arretratezza di pensiero Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, che circa un anno dopo l’inizio della protesta di Kaepernick disse che la NFL, il campionato americano di football, avrebbe dovuto licenziare chi protestava.
“Buttate fuori dal campo quel figlio di puttana adesso, fuori, è licenziato!”
E giusto per non smentirsi, nella stessa occasione Trump ebbe modo di attaccare le regole concepite per evitare i rischi derivanti dai colpi multipli alla testa, che spesso negli sport così violenti portano all’encefalopatia cronica traumatica. Malattia che colpisce moltissimi atleti di colore e studiata nel dettaglio, peraltro, da un medico nero, il nigeriano trapiantato in America Bennet Omalu, in una vicenda ricostruita in un ottimo film, Zona d’ombra (Concussion) del 2015.
Alla fine questo devono essere gli sportivi (ma anche i cantanti, gli artisti, i letterati) nella visione di chi la pensa come Trump: degli imbonitori che tengano tranquille le folle mentre loro si occupano delle cose importanti. Da entrambe le parti dell’Atlantico.
La NFL, comunque, composta e finanziata da proprietari per lo più molto simili a Trump, obbedì: a partire dal 2017 Kaepernick vide scadere il proprio contratto e non trovò più una squadra che gli desse una chance. Oggi ha 33 anni e volendo potrebbe giocare ancora, ma nonostante la delicatezza del suo ruolo in campo e la sua esperienza vincente, nessuno lo prende in considerazione nemmeno per un ruolo di contorno. Se qualcuno crede alle coincidenze, probabilmente crederà anche che le iniezioni di disinfettante possano curare il Coronavirus.
È stato LeBron James, campione di basket e punto di riferimento degli atleti, di colore e no, d’America a non solo, a collegare le vicende di Floyd e di Kaepernick, postando una foto che metteva uno di fianco all’altro i due diversi inginocchiamenti.
LeBron, nato povero e praticamente senza una figura paterna in casa, si è esposto politicamente numerose volte in questo ambito, tanto che una giornalista di Fox News, Laura Ingraham, un paio d’anni gli ha rivolto un invito ricco di simpatia e democrazia: “Shut up and dribble”. Zitto e gioca, più o meno.
James ne ha fatto il titolo del proprio podcast e di recente ha fatto notare alla Ingraham una leggera incoerenza: quando Drew Brees, altro quarterback della NFL, bianco, ha dichiarato che non sta dalla parte di chi protesta contro la bandiera, letteralmente sommerso dalle contestazioni anche dei suoi compagni di squadra, la giornalista di Fox ha dichiarato che Brees aveva diritto alle proprie opinioni. Ma certo: hai sempre diritto alle tue opinioni, purché coincidano con le mie.
Che cosa ci insegnano George Floyd, Derek Chauvin, Colin Kaepernick, Bennet Omalu, Donald Trump, LeBron James, Larua Ingraham, Drew Brees? Assolutamente niente. Perché si tratta di fenomeni che si sono ripetuti migliaia di volte, in America e in Europa. Che si ripetono ogni giorno.
Non sono bastati agli Stati Uniti Muhammed Ali, Jackie Robinson, Martin Luther King, Kareem Abdul Jabbar, Malcolm X. Non sono bastate le centinaia di vittime di soprusi, per cambiare radicalmente le cose. Non sono bastati a noi migliaia di migranti morti in mare o massacrati da condizioni di vita ignobili. Abbiamo postato quadrati neri, ci siamo lavati la coscienza e siamo pronti per il prossimo trend dei social, magari pronti anche a cambiare posto sull’autobus se un ragazzo di colore si siede vicino a noi.
Il cambiamento è lento, procede per gradi, richiede generazioni e non segue i tempi superficiali dei media e dei social. Richiede approfondimento, proprio quello per cui facciamo finta di non avere tempo.
Soltanto se la coscienza ci rimorde almeno un po’, se non siamo pronti a pensare che comunque sono affari loro, che noi non faremmo mai, che non ci comporteremmo mai, che non ci riguarderebbe mai, allora quei quadrati neri, quegli hashtag, quell’indignazione manifestata non sarà soltanto un pensiero di passaggio e si potrà cominciare a respirare.
Fabio Alcini