Il primo album di Caspio si intitola Noi che viviamo in un mondo perfetto (Believe Music Italia): il cantautore racconta del mondo in cui viviamo, un mondo che ci chiede costantemente di essere perfetti, di superare costantemente noi stessi e gli altri, un mondo per il quale non siamo mai abbastanza bravi, forti, performanti.
Per questo Mondo perfetto abbiamo rinunciato a noi stessi, alla nostra libertà, al nostro tempo, sulla base di una promessa non mantenuta: quella di un futuro migliore. E ora eccoci qui, intrappolati in dinamiche da cui non riusciamo più a liberarci e che sopportiamo per farci accettare dagli altri, per appartenere a qualcosa, per farci voler bene. Qual è la via d’uscita a tutto questo? Fare un passo indietro e arrenderci? Secondo Caspio vale la pena farsi queste domande ma, soprattutto, guardare dentro questo Mondo perfetto con una dose di cinismo per ritrovare noi stessi.
Quello di Caspio è tutt’altro che un mondo perfetto, anzi ci addentriamo in un mondo oscuro e decisamente complicato. Un gomitolo che abbiamo iniziato a sciogliere proprio con lui.
In questo disco percepiamo una sorta di critica alla normalità, che però è anche il nostro rifugio. Come mai hai scelto questa tematica?
La normalità è un concetto complicato e controverso: per definizione è una condizione tipica, comune e conforme. Eppure è anche soggettiva. Ho scritto un album rock che, per me, era normale ma che non lo è per la musica di oggi. Qualcuno cerca la normalità, qualcun altro la fugge. Personalmente la mal sopporto, ma sono sicuro che se riuscissimo a crogiolarci in un po’ di quella normalità giusta, forse ne potremmo tutti trarre beneficio.
Il fatto che tu sia tornato a fare rock, spogliandoti di quella veste elettronica del tuo precedente ep, ha in qualche modo a che fare con questo che ci stiamo dicendo?
Certo: per mandare un messaggio del genere, più vero possibile, dovevo rinunciare a un po’ di tecnologia. La strumentazione che ho utilizzato per l’album precedente ci poteva stare in una piccola valigia. Nel nuovo disco, invece, ha suonato un chitarrista, un essere umano vero, alto più di due metri. Sono tornato alle mie origini, alla musica distorta, suonata.
Ho chiuso con l’artificiale e sono tornato all’essenziale. È stato un ritorno alla musica anche un po’ imprecisa, che si suona sui palchi, nelle sale prove. Quella per cui ti tocca organizzarti con gli altri perché dobbiamo esserci tutti. Quella che fa casino e fa saltare le persone nei prati, nei club. Avevo bisogno di gente intorno che capisse.
Che cosa accomuna la generazione dei millenial? E com’era fare musica, prima che la nostra fosse percepita come una generazione di “vecchi”? C’è ancora spazio per tutti?
Noi millennial siamo la generazione MTV. La musica la conosciamo grazie alla tv, ai videoclip, di cui recepivamo i messaggi, così diretti. Siamo accumunati da una grande tendenza al problem solving, da un elevato livello di pazienza, da una enorme capacità di recupero e resistenza. Siamo disillusi, scolarizzati, informati. E proprio per questo siamo anche un po’ depressi, malinconici e nostalgici. Siamo vecchi? Forse. Ma è nostro diritto prenderci ancora qualcosa, visto che molto di quello che ci aspettava ci è stato negato.
Come hai accolto il 2025? Quali sono i tuoi programmi e buoni propositi per questo nuovo anno? Musica nuova?
Il 2025 sarà un anno decisivo, credo. Per molte cose, per molte scelte che saranno da prendere, perché compio una cifra tonda di anni. Musica nuova sicuramente perché ho la testa, seppur confusa, sempre fortunatamente piena di idee.
E dopo questo disco, che cosa accadrà?
In questo momento ti direi una pausa. Ho bisogno di prendere un bel respiro, di rallentare un attimo. Fare musica deve rimanere un piacere oltre a una risposta a una urgenza espressiva.