Si chiamano, è abbastanza noto, C+C=Maxigross e si scopre che fanno “Psychological Rock”: la formazione veronese, indubbiamente fra le più importanti (e misteriose) dell’ultimo scorcio della musica italiana ha pubblicato di recente il nuovo album Deserto.
Un disco tutto sommato “accessibile” (qualunque cosa questo aggettivo voglia dire applicato alla musica dei C+C) anche perché usa per la prima volta l’italiano per i testi (qui la recensione). Abbiamo rivolto al gruppo qualche domanda.
Partiamo dall’italiano. Questo è il primo lavoro lp nella lingua madre. Inevitabile chiedere le ragioni di questo passaggio, che peraltro mi sembra sia stato graduale.
Siamo ripartiti dalla nostra lingua madre. La riflessione è stata tanto semplice quanto rivoluzionaria (almeno per quanto ci riguarda). Se per noi la priorità è trasmettere un’emozione quanto più pura e sincera possibile, e per comunicarla utilizziamo il mezzo della canzone, è utile a questa finalità l’utilizzo di una lingua di cui non abbiamo padronanza e confidenza (l’inglese) rispetto alla nostra lingua madre che ci permette invece di scegliere tra numerosissime sfumature? Secondo noi no.
E l’utilizzo di una lingua ritenuta più “internazionale” di altre (sempre l’inglese) nei testi delle canzoni aiuta a essere più ascoltati in giro per il mondo? Secondo la nostra esperienza personale, tra tour fuori dall’Italia e annessa promozione e distribuzione della nostra musica fuori dai confini italiani, crediamo che non aiuti, anzi.
Cantare in inglese da non madrelingua inglese rispetto a chi è madrelingua inglese ci pone immediatamente in una posizione di “emulazione” (non solo linguistica ma anche stilistica e di immaginario) in difetto con la conseguenza che l’ascoltatore, che deve scegliere cosa ascoltare, più o meno inconsciamente verterà comprensibilmente su chi è più credibile e veritiero. Ponendo un altro esempio molto più tangibile ci pare evidente che molti dei numerosissimi ascoltatori di Caetano Veloso situati in giro per il mondo, a partire da noi stessi, si emozionano ascoltando la sua musica perché lui stesso si emoziona nel cantare e rivivere quelle emozioni, nonostante noi non capiamo letteralmente che cosa dicano i suoi testi, non conoscendo il portoghese.
Ma lui vive e sente fortemente ciò che sta cantando, con tutte le sfumature e la profondità che può raggiungere con la lingua con cui si è formato. E questo vale per tutta la musica cantata in lingue che non conosciamo correntemente (lo stesso inglese) ma che ci emozionano ogni giorno. Perché non possiamo farlo anche noi? Perché il concetto di essere una “band internazionale” è visto solo come un adeguamento al mercato, al linguaggio anglo-americano e al suo stile, come se cantare in una lingua che non è tra le più parlate al mondo fosse un limite invece che una meravigliosa particolarità e curiosa unicità?
A noi interessa essere noi stessi, con sincerità e apertura verso ciò che non conosciamo. Cantare in una lingua non nostra e seguire stili e tendenze imposte dal mercato (sia del grande mercato commerciale che quello più piccolo e indipendente, sia chiaro) non ci interessa, anzi lo crediamo la morte della diversità, che riteniamo un valore positivo e un vitale arricchimento per l’Umanità tutta. Questa risposta è naturalmente un sunto assai semplificato e generalizzato di un percorso lungo anni, per poter rendere fruibili (e speriamo anche godibili) questi ragionamenti nello spazio da voi gentilmente concessoci.
Il disco si chiama “Deserto” ma in verità è particolarmente popolato, di suoni e di sensazioni. Vorrei capire da dove parte il concetto del disco e il suo sviluppo
Deserto non è da interpretare nella sua accezione stretta di landa desolata e simbolo di morte. Il Deserto è purificazione, riflessione e assenza di preconcetto.
Una tabula rasa da cui ripartire con onestà, un foglio bianco su cui calare i colori e dipingere qualcosa di nuovo e diverso, quantomeno per noi.
Poi si sa, con il foglio bianco sai quando cominci, ma non sai quando esattamente quando ti fermerai.
Mi ha incuriosito anche la copertina: che cosa simboleggia la “Testa di Tigre” di Antonio Ligabue?
Bisognerebbe chiederlo al Maestro Ligabue. Senz’altro a noi ogni sua opera ricorda l’importanza del rapporto con la Natura, del legame indissolubile con il Mondo che esiste ben prima della società moderna (o qualunque società creata dall’uomo) e che nonostante sia palesemente il fondamento della nostra esistenza, ciò che ci ha donato la Vita e che ci tiene in Vita, sia costantemente sciolto e dimenticato dallo stesso uomo, che ricerca il suo orizzonte in quella società che mette costantemente ai suoi margini esseri viventi meravigliosi come è stato proprio per Antonio Ligabue.
Il suo sguardo è un ponte verso l’inspiegabile, l’indicibile. Siamo immensamente fortunati per aver incrociato creature umane che ci aiutano a intravedere questi lidi oltre la foschia. E, se non siamo stati abbastanza chiari, per noi la foschia che ci confonde è generata proprio dall’uomo moderno e dalla società da lui creata.
La parte visiva con voi è sempre fondamentale: le foto che accompagnano in questo disco vi ritraggono mascherati, in viaggio, nella nebbia, sulle colline, in pose rituali e misteriche, accanto a piramidi moderne. Come vanno lette?
In effetti è tutto molto simbolico.
Ci piacciono i simboli, quelli antichi e quelli creati da noi. Ci piace anche mescolarli e creare mondi senza tempo e spazio. Tutto però è profondamente studiato e stratificato, nel senso che per noi il messaggio è chiaro e sensato. Tu ci chiedi come vanno letti, la risposta purtroppo non possiamo o meglio, non vogliamo dartela. Fidati lo facciamo per te!
Il nostro consiglio è quello di perdersi nella nostra musica e immagini e ritrovarne in esse un proprio significato.
Secondo noi tutto parte da una domanda “Voi cosa cercate?”
Ponitela e facci sapere cosa vedi.
Sarà fatto… E come si inserisce nel discorso il testo di Rovelli che avete inserito nel disco? Si potrebbe interpretare anche come un desiderio di non sparire in quel deserto che è la memoria…
Il Prof. Rovelli è un divulgatore scientifico tanto quanto un ricercatore della Poesia, intesa non (solo) come forma letteraria, ma come modo di vedere e vivere in questo mondo, inseguendo la “creatività” e la gioia generata dalla tensione verso di essa (“poesia” dal greco “poiesis”, ποίησις, ovvero “creazione”). È meraviglioso trovare personalità autorevoli della società moderna (per meriti utili all’Umanità, inclusivi e generosi) che ci ricordano che la ricerca scientifica non può essere scollegata dalla ricerca poetica.
Con il progresso sfrenato degli ultimi secoli queste strade si sono sempre più distinte, ma basta ricordarci di Leonardo Da Vinci per realizzare che non è sempre stato così. Aggiungiamo un altro piccolo simpatico dettaglio: Rovelli è veronese. Sull’interpretazione, come la domanda sopra, è un piacere per noi stimolare un tuo pensiero e, nello specifico dell’estratto di Rovelli, ti invitiamo a leggere, se non l’hai già fatto, l’opera da cui è tratto, “L’ordine del tempo” (Adelphi, 2017).
Mi raccontate un po’ anche delle collaborazioni dell’album, e la scelta molto “autarchica” di includere musicisti veronesi nel discorso?
Diciamo che ci sono molti amici in questo disco, amici che sono anche validi artisti. Per motivi puramente geografici ci sono alcuni veronesi come dici tu, ma non solamente: alla produzione artistica c’è Miles Cooper Seaton (Akron/Family) da Los Angeles, il disco è stato registrato e mixato da Juju (halfalib, Any Other), Seba Martinelli ha suonato i fiati (Kuru), Gigi Noce la concertina e questi sono i “non veronesi”. Da Verona c’è la voce di Adele Nigro (Any Other), il Vibrafono di Tommo Castiglioni (Orchestra Mosaika) e il violino di Lukas Kuriat che all’epoca viveva a Verona (ora non ci vive più e per inciso è nato e cresciuto in Polonia).
Una curiosità: in sede di recensione mi sono trovato particolarmente in difficoltà nell’attribuirvi un genere. Non da oggi, peraltro. Sappiamo perfettamente che si tratta di etichette utili soprattutto per i giornalisti. Ma se doveste attribuire un genere, anche del tutto inventato, a questo disco, quale scegliereste?
“Psychological Rock”. Perfetto per un articolo in stile “Tutto Musica”: “Il nostro? È Rock Psicologico.”
Vorrei che mi descriveste un po’ il progetto “Deserto per Verona” e il nuovo “Deserto per il Veneto”, dal concepimento alla realizzazione.
Tralasciamo la parte in cui ci lamentiamo di Verona come città chiusa, razzista e bigotta.
Tutto quello che sentite, clima e episodi, è tutto vero. Non lo nascondiamo, vogliamo solamente portare un’altra narrazione, essere un’altra storia.
Come progetto musicale fin da subito avevamo raggiunto uno status di band che suona in tutta Italia. Quando questo avviene, automaticamente la tua città diventa il luogo in cui suonare di meno, in una parola “tirarsela”. La regola numero uno era “dire NO a qualsiasi proposta da Verona”. I concerti dovevano essere i pochi decisi e gestiti da noi. Con il tempo ci siamo accorti che, a causa di ciò non stavamo più portando la nostra musica nei luoghi e per le persone per cui volevamo davvero suonare.
Da qui Deserto per Verona, un tour di concerti per quei posti e persone che con la loro attività (dalla gastronomia alla biblioteca, fino alle associazioni culturali) quotidianamente si impegnano per rendere Verona un posto migliore. Ci siamo proposti a moltissimi e molte sono state le proposte, alle quali, salvo impossibilità fisica, abbiamo sempre detto sì.
Deserto per il Veneto parte con la stessa filosofia. Entrambi i progetti sono pensati per poter durare, potenzialmente, in eterno.