Un’instant band: nati nel febbraio del 2014, I Giardini di Chernobyl erano al lavoro appena 5 mesi più tardi, con le registrazioni del primo lavoro con Giulio Ragno Favero (bassista e produttore de Il Teatro degli Orrori).
Il risultato, compatto e molto intenso, è Cella Zero, costituito da dieci tracce di rock potente e piuttosto oscuro.
Si parte con Noir, robustissima e piuttosto incalzante, benché immersa in un suono piuttosto fluido e in un’atmosfera oscura. Mentre Lisa dorme è altrettanto ruggente e potente.
Si abbassano leggermente i toni all’interno de Il desiderio oscuro di Charly, almeno nell’introduzione, con lo scoppio d’ira che arriva in un secondo momento.
Jekill torna a picchiare fin da subito, su ritmi medio-lenti ma con volumi molto alti e chitarre molto rumorose. Un infinito inverno si mette all’inseguimento di sonorità internazionali, con il rock alternativo degli anni Novanta in primo piano.
Parte piano e poi decolla anche Homus, che mette in evidenza le ottime qualità vocali del cantante Emanuele Caporaletti. Foto dall’aldilà rallenta i ritmi e si pone su una linea minimal prima dell’ingresso, come sempre rumoroso, della chitarra.
Lo Spettro inizia subito con il vestito delle grandi occasioni e riempie di suoni le casse. Casse che restano piene anche nella depressiva Odio il Sole, in cui la batteria accende fuochi di fila tra i quali è difficile districarsi.
Si chiude con Iago, che emerge dalle claustrofobie del disco per muoversi con volute più ampie, ma non per questo più ottimiste, e senza alleggerire i suoni.
L’album ha numerosi spunti di interesse, benché non sia mai particolarmente sorprendente. Ma l’energia e l’impatto sono innegabili ed è interessante anche il fatto che la storia della band sia ancora molto breve: il futuro potrà regalare sviluppi ulteriori.