Con l’umile ma malcelata ambizione di fornire ai lettori di TRAKS qualcosa di “diverso”, che si possa leggere accanto, insieme, sopra e sotto la musica che accompagna le nostre giornate, questo agosto abbiamo deciso di proporre o riproporre alcuni articoli monografici che abbiamo scritto in passato, per lo più su altre testate, e che non volevamo andassero persi. Letture estive, ma anche per ogni stagione.
«Il famoso Don Chisciotte della Mancia, riparatore di offese, raddrizzatore di torti, rifugio delle donzelle, sgomento dei giganti e vincitore delle battaglie»
miguel de cervantes
Qual è l’amore migliore di tutti? Quello che il tempo non può rovinare, la vecchiaia sfilacciare, persino la realtà scomporre e distruggere, cancellando come scritte sulla sabbia le promesse degli amanti? Semplice: l’amore inventato. Quello senza fondamenti reali, senza appigli nel fattuale, quello che prescinde dall’oggetto d’amore.
L’amante inventa di per sé, dipinge paesaggi che non sono sempre veritieri, esagera con la fantasia e si figura un futuro molto più roseo di quanto la realtà gli potrà mai riservare. Ma se ci si inventa innamorati di una fanciulla che quasi non esiste, oppure che esiste soprattutto nei propri sogni, non ci si mette al riparo da qualunque tipo di disgrazia?
Poniamo il caso curioso di Don Chisciotte e di Dulcinea. Ecco l’unico tipo di amore perfetto. Il cavaliere errante ideato da Cervantes ha visto di sfuggita e una volta sola la sua amata. L’ha del tutto idealizzata, immaginando una dama meravigliosa dove c’è una semplice contadina, nemmeno troppo gentile, almeno a quanto racconta Sancho. Chi potrà mai sconfiggere o rovinare un amore così?
Don Chisciotte è un visionario, ma è un pazzo lucido. Per esempio a un certo punto decide, letteralmente, di impazzire d’amore per Dulcinea, in modo da impressionarla, facendo gesti insensati che poi Sancho dovrà riportare alla sua innamorata, sul modello di Orlando e di altri cavalieri. Un pazzo che sceglie di essere pazzo e che pianifica le proprie follie, come aggirarsi nudo nella Sierra Morena, dare calci all’aria, digiunare e rotolarsi a terra, selezionando mossa per mossa.
Cervantes scrive il romanzo alla fine di una vita molto avventurosa, che lo porta a duelli, incarichi al seguito di un cardinale, fino alla battaglia di Lepanto dove perde l’uso di una mano, poi cinque anni prigioniero in Algeria, quindi di nuovo in Spagna incarcerato, insomma protagonista di una vita tutt’altro che tranquilla.
Lo scrittore stesso non era alieno ai rovesci della fortuna in amore. Non direttamente, ma comunque finendo colpito da vicino: ci fu molto da discutere, a inizio Seicento, nelle vie di Valladolid, quando un cavaliere, un certo don Gaspar de Ezpeleta, fu trovato ucciso davanti casa di Cervantes. I membri della famiglia Cervantes furono scagionati dall’omicidio, ma il buon nome delle sorelle e della figlia naturale dello scrittore, Isabella, non ne uscì altrettanto lindo. Che tipo di commerci avevano, queste signore, con il cavaliere assassinato?
Meglio inventare, allora. Meglio viaggiare con la fantasia, non confondersi con i bassi commerci, con le brutture, con la carne.
Don Chisciotte, al contrario di ciò che dice la percezione popolare, non è un simpatico folle innocuo che combatte i mulini a vento. O meglio, è anche questo, ma il ritratto che ne fa Cervantes soprattutto all’inizio dell’opera è quello di un personaggio negativo, che fa più danni di quanti ne risolva, un fannullone impegnato a dispiegare il proprio tempo in sogni inutili, legati a un passato ormai morto e sepolto.
Piano piano, nel corso del libro, è però evidente una mutazione. Don Chisciotte rimane più o meno lo stesso pazzo pasticcione e illuso, ma è in Cervantes che cresce la considerazione per il suo personaggio, che comincia a vedere anche da altri lati. Si arriva ai capitoli finali della prima parte con la consapevolezza che, stramberie a parte, il “Cavaliere dalla Trista Figura” è un gigante, anche se a modo suo.
È consapevole di trovarsi in un’epoca in cui i cavalieri erranti non servono più a niente, non esistono più e non possono sperare in niente. Eppure, in modo protervo e insensato, sceglie consapevolmente di portare avanti valori, tradizioni e costumi di un’era che ritiene migliore. È il più conservatore dei conservatori, da un certo punto di vista, ma soltanto perché crede in ciò che fa, nella propria missione. Soltanto perché è puro.
Cervantes riesce a fare letteratura e metaletteratura insieme, gestendo con abilità la situazione, sfondando o comunque facendosi beffe della “quarta parete”, quella che lo separa dal lettore, e rivelandosi nel contempo avanti ai tempi ma anche perfettamente intonato con i trompe l’oil e le damascature linguistiche del Barocco.
Del resto l’inganno è una delle basi dell’arte: è proprio quando, leggendo un libro, osservando un’opera, ascoltando una musica, prendiamo in giro la nostra mente e pensiamo di vivere un altro tempo o in un altro luogo, che si può dire che l’artista è riuscito nel proprio intento.
Don Chisciotte è l’artista più assoluto, se vogliamo: si inganna da solo e consapevolmente, sogna la propria vita e la mette in pratica, fa di sé un’opera d’arte. E fa del proprio amore una scelta del tutto artistica, mettendo in campo tutto ciò che il proprio cuore, il proprio cervello, la forza del braccio possono offrire. A prescindere da un unico orpello del tutto trascurabile: la realtà, assassina di sogni.