La geografia è importante. Intanto è importante per il clima: se fossimo ai Tropici, per dire, non minaccerebbe pioggia (mantenendola talvolta) su questa serata del Flowers Festival 2019 che alla Lavanderia a Vapore nel Parco della Certosa di Collegno (Torino) ospita il concerto dei Fast Animals & Slow Kids, preceduto dalle esibizioni di Giancane e Rancore.
Ma la geografia è importante proprio per gli headliner di serata, che anche stavolta non mancheranno di ricordare: “Siamo i Fast Animals & Slow Kids e veniamo da Perugia!” E anche per gli altri due protagonisti di serata il discorso è simile: esponenti di una scena romana “laterale” che però al momento non è meno centrale di quella dei Gazzelle e dei Carl Brave, solo molto più “rock”, in senso lato ovviamente.
Insomma le proposte migliori al momento sembrano arrivare dal centro Italia (mettici Latina e i suoi figli, l’Abruzzo del Management, tanta roba emergente che arriva dalle Marche). E’ un discorso di rotazione: ci sono stati i momenti del nord e del sud (e isole), ora tocca al centro.
Giancane parte da Hogan blu, con una bella botta punk giusto per partire. Poi passaggio rapido al folk celtico di Una vita al top. E poi qualcosa che assomiglia a un anthem, cioè Disagio, tratta dall’ultimo disco Ansia e disagio, probabilmente il titolo più indie ever. Ovviamente c’è una cifra molto ironica nell’esibizione di Giancane, che si presenta con una band da cinque componenti e passa metà del set a lamentarsi della luce ancora alta, così tiene gli occhiali da sole.
Arriva poi Limone, con la denigrazione sistematica degli anni Ottanta. Poi Buon compleanno Gesù e la curiosa cover di L’amour toujours di Gigi D’Agostino, definita “Momenti Lucchesi” in quanto cantata dal chitarrista. Poi ecco un classico: Vecchi di merda a chiudere.
Rancore: sangue (di drago) sul palco
Nell’attesa di Rancore le prime file cantano un po’ di tutto, compresa la sigla di Dragonball. E poi arriva l’Orquestra, con le abituali maschere da spaventapasseri e con i bassi che iniziano a far vibrare l’aria (forse regolati un po’ altini, ma ci sta).
La gente comincia ad affollarsi, le luci a calare (lentamente) e Rancore sale sul palco piazzando lì il proprio Arlecchino, già pimpante e saltellante. “Co’ ste luci non sento un cazzo”, ci tiene a farci sapere, prima di far partire i versi omerici di D.A.R.K.N.E.S.S.
Decisamente in forma, nonostante qualche piccolo problema di tosse che gli farà interrompere Richiama Giancane per suonare la chitarra su Skatepark, molto violenta e breve. I due raccontano di essere amici (la “scena romana” appunto, fatta di collaborazioni fra artisti molto più che in altri luoghi d’Italia) e poi attaccano Ipocondria, che vede il duetto fra loro contenuto nel disco di Giancane.
Uscito Giancane, Rancore parla un po’ (mento: parla tantissimo) prima che parta Giocattoli con la sua forza meccanica e i suoi bassi che pompano sempre in modo da spezzare le costole delle prime file.
Una tirata, forse un filo fuori epoca, contro quelli che ai concerti fanno i video, prima di Centro asociale. Quindi un intermezzo strumentale prima di esplorare tutti i misteri di Questo pianeta.
Si sale di tono, di ritmi, di sensazioni: ecco Underman, poi S.U.N.S.H.I.N.E. e tutte le oscurità calano sul palco. Ma ci si ripiglia subito con la classica sfida di Rancore ai propri polmoni con Beep Beep, prestazione tecnica sopraffina, con la mascherina d’ossigeno per prendere un po’ di fiato tra un torrente di parole e l’altro.
“Giro col coltello quando giro per Tufello” è il mantra ripetuto anche dal pubblico per il brano più “urban”. Accolta dal trionfo la celebre Sangue di drago, che pur fra molte metafore fa quello che una volta facevano le rock band: prende la sostanza di un mito cavalleresco e la fonde con la parte più aggressiva degli istinti hip hop. Si chiude con Rancore, canzone eponima che mette il punto a una performance sontuosa, convincente, coinvolgente e studiata nei dettagli (spettacolari anche luci e costumi, come si può intuire dalle foto).
Fast Animals & Slow Kids: musica e dolore
Partono forte anche i Fast Animals & Slow Kids: la scelta dell’incipit cade su Radio Radio, che già urla abbastanza e che comincia a trasmettere quella sensazione di una band che ogni volta vorrebbe strapparsi il cuore dal petto per offrirlo al pubblico del concerto. Il “male nero” fa già cantare a squarciagola il pubblico.
I capelli di Aimone volano da ogni parte, mentre gli altri della band, forse per compensazione, sono molto più fermi e statici, composti nella concentrazione richiesta dal proprio strumento.
Parte Cinema, altro estratto dal recentissimo Animali notturni, che sulla carta (ma anche su Spotify) è un po’ più morbido e pop rispetto ai rudi dischi precedenti. Il discorso è che si cresce, i gusti cambiano, non si rimane adolescenti incazzati a vita. O forse un po’ sì, tipo in concerto: con Calci in faccia, tratta da Alaska (2014) parte un pogo assurdo e anche molto “vasto” che personalmente non vedevo dagli anni Novanta.
Fa tutto parte del gioco naturalmente, con il pubblico spaccato a metà fra quelli che sono catturati dalle canzoni più recenti (tante ragazze in questa categoria) e chi invece vuole proprio farsi del male fisico per godere meglio delle canzoni antiche, più pestate ma non necessariamente più dolorose.
Ecco il nuovo inno Non potrei mai, che rischia seriamente di spingere in alto gli ascolti dei ragazzi, anche un po’ al di fuori della nicchia (nicchia?) di riferimento. Come gli altri pezzi recenti qui suona un po’ meno ricco degli “scintillii” che su disco si ascoltano, mentre chitarra-basso-batteria sottolineano soprattutto le parti incazzate.
E’ così anche per Dritto al cuore, con la sua freccia che dev’essere “lunga, storta e faccia male”: non è Cupido qui, e il dolore sembra vero. L’intermezzo con Aimone che invita il pubblico a cantare compatto che “una volta si può sbagliare” sembra prendere spunto dalla vita vera e sincera.
Parte quasi blues ma poi si irrigidisce in fretta Annabelle, da Forse non è la felicità (2017), e si riprende a pogare di gusto. Prima di Novecento il cantante lungocrinito raccoglie un cartello dal pubblico che rievoca i Benders, cioè la proto-band antica in cui un primo nucleo dei Fask ha avuto origine (“Comunque facevamo schifo, eravamo proprio una merda”, la cortese chiosa) prima di spiegare che sono ragazzi degli anni Novanta e quindi i dischi li fanno dall’inizio alla fine (falso, viste le tante assenze dei brani dell’ultimo album dalla scaletta, ma comprensibile).
Altro violento salto al passato con Come reagire al presente, che si allunga parecchio. Per questa parte di concerto Aimone inizia a interagire come fa sempre con le percussioni, picchiando come un forsennato e sfidando il suo batterista. Forse non è la felicità è l’ultima oldie proposta dal gruppo, che fa ancora in tempo a regalare Demone e le sue “tre domande da non fare a nessuno”. C’è lo stage diving finale di Aimone, per confermare lo stato selvaggio di un concerto con pochissimi limiti.
E’ un ovvio e giusto trionfo per una band in stato di grazia sia a livello compositivo sia per quanto riguarda la performance dal vivo. Poi, certo, se vai a vederli dal vivo, un paio di costole rischi di ammaccartele se non stai attento. Ma musica e dolore con i FASK vanno di pari passo, quindi zitto e salta.