Genova, estate 2021: mentre Divi solca il pubblico dell’Arena del Mare durante un trionfale concerto dei Ministri, Federico Dragogna rimane sul palco, divisa aperta sul petto per sopravvivere al caldo torrido, e regala frustate di chitarra elettrica a un pubblico entusiasta…

Fast forward, maggio 2023 ed eccomi qui a chiacchierare al telefono con il “cantautore” Federico Dragogna, che apre la sua carriera da solista (a parte qualche discorso di colonne sonore nel passato) con Dove nascere, disco intenso e profondo in procinto di uscire, sicuramente non lontano dalle idee dei Ministri, di cui è autore oltre che chitarrista, ma sicuramente con atmosfere sonore non sempre coincidenti con quella immagine di rock, sudore, folla e grande impatto. Per rompere il ghiaccio gli chiedo come sta andando la promozione “in solitaria”.

“Bene! Oggi ho la giornata di chiacchiere… Per ora mi sembra di non essermi troppo ripetuto”

Be’ alla lunga sarà inevitabile…

Ma sì un po’, però conto sempre molto sull’improvvisazione. Non ho il metodo tipo: “Devo riuscire a dire queste cinque frasi”. Non ce l’ho mai avuto.

Peraltro le mie prime domande saranno scontate, quindi ti metto alla prova su questo versante, mettiamola così… Partiamo con: perché un disco da solista e perché adesso?

Potrei rispondere: “Perché no?”. Perché adesso: forse era un processo, per lo meno dentro di me. Ma anche di lavorazione di questi pezzi, in quattro anni di pause, notti, weekend e quant’altro. E adesso su disco sono nella versione che firmerei e controfirmerei. Forse questo non mi è mai capitato.

Avendo fatto un po’ di dischi hai sempre quel momento in cui dici: questo pezzo è così, perché poi deve uscire tra tre mesi. Invece in questo caso quando sono finite le lavorazioni di questi pezzi, poi si è detto: facciamolo uscire. Quindi è proprio una considerazione super consapevole.

Ti è mancata l’interazione con i tuoi sodali storici? E se sì, in che fasi?

Io ho sempre scritto da solo, la canzone è sempre partita come una creazione nella solitudine. Quindi ti direi che in realtà il primo vero incontro e riscontro è letteralmente la prima persona fuori da te cui fai sentire le canzoni. In questo caso il mio “tester” è stato in buona parte Mattia Cominotto, con cui ho prodotto il disco. E’ di Genova, ex Meganoidi, è lui che ha scritto Zeta reticoli e quant’altro, e con lui c’è stato questo vero confronto, in realtà su molte più canzoni.

Io come al solito per arrivare a dodici canzoni parto da almeno venti, poi si screma come i matti, quindi è rimasto quasi un altro disco intero fuori. Quello che sicuramente un po’ viene a mancare è quello che può succedere ai pezzi con l’interplay cosiddetto. Quindi portando i pezzi in una sala prove, ognuno lo suona, lo controsuona… In questo caso molto del disco è suonato da me, ci sono persone che hanno fatto una serie di parti, batteria e quant’altro, sicuramente ci hanno messo del loro, però c’è una visione primigenia, la mia, che ho cercato di mantenere.

Credo che siano due processi diversi, entrambi interessanti, quello che è sicuro e che invece adesso portandolo dal vivo non ci sarà questa solitudine ma ci sarà una band. Perché la dimensione dal vivo la riesco a immaginare soltanto con “gente che suona”.

E a questo proposito, perché l’ultimo dei guitar heroes italiani fa un disco lontano dai canoni del rock?

Devo dire che il rock è una cosa che in questo momento e negli ultimi anni mi è interessato tanto fare con i Ministri, che sono i miei compagni di strada su quello. Mentre i miei ascolti non sono più rock in quel senso da un bel po’.

La mia attitudine rimane un po’ quella perché se mi dai effettivamente del materiale in mano e mi fai salire su un palco probabilmente lo porterò da quella parte lì almeno come attitudine più che come distorsione, però i miei ascolti sono altrove da un po’. Il rock, anche come è usata la parola in italiano, è ancora un po’ quella definizione come la usava Celentano…

Sei ottimista in merito insomma…

Sì esatto… Non riesco ad amare quell’idea di rock un po’ americana, un po’ da stereotipi, un po’ da macchiette. Va benissimo, come un sacco di altre grandi tradizioni, però quando una cosa diventa tradizione mi piace cercare altre strade. Con tutto il rispetto per chi continua a farlo, anzi credo che ci sia assolutamente bisogno che qualcuno continui a farlo. Però mi è sempre piaciuto cercare di forzare un po’ le forme, di cambiare il contenitore oltre che il contenuto.

Mi spieghi titolo e copertina del disco, giusto per dare un ulteriore contesto?

Come in molte scelte nel disco non c’è un gran calcolo né una grande strategia, ma più qualcosa di predestinato: incontrai la foto di copertina a casa di una mia amica almeno sette-otto anni fa. Quando la vidi le dissi: ti prego, mi giuri che, anche se litigheremo, quando farò il primo album solista potrò usare questa foto? Lei mi disse sì e dopo sette anni la chiamai e le dissi: è arrivato quel momento, mi giri la foto?

E non avevate litigato…

E non abbiamo litigato, grazie a Dio… E’ stata un’illuminazione ed è stato ancora più buffo che, in questi sette anni, non le avessi chiesto precisamente il contesto della foto. Per quanto fosse ovvio che era una foto in un circo in quei miniset che si fanno tipo luna park. Non sapevo che quello fosse stato il suo primo momento di presa di sicurezza, di coraggio.

Lei era andata al circo come spettatrice con la famiglia. A un certo punto il tipo chiese: “Chi vuole fare la foto con il serpente?” E lei alzò la mano e andò a fare la foto nello stupore della famiglia che la conosceva come la bambina più timida di questo mondo.

Questa cosa l’ho trovata molto interessante, come trovo interessante che sia impossibile risalire al fotografo di quella foto. La foto ha qualcosa di surreale, di potentissimo, anche un’innocenza che mi interessava molto. Stiamo vedendo una bambina e un serpente: al serpente nessuno ha chiesto se fosse consenziente per la foto, della bambina ho saputo dopo ma in generale vedo una grande innocenza, in una foto che di contro, come senso simbolico, sembra il massimo del colonialismo: noi uomini che ci facciamo la foto con questo resto della vita selvaggia…

La tracotanza occidentale…

Esatto. Che è un po’ qualcosa che in Musica per aeroporti e altri brani del disco un po’ serpeggia. Mentre per il titolo è stato un brano che poi è diventato title track. Però mi interessava il titolo insieme alla foto, che racconta come Serena (l’amica in foto, Ndr) sia nata in questa parte di mondo dove la palma dietro è disegnata e il serpente è vero ma è parte di un circo. E racconta anche come io sono nato in questa parte del mondo, che mi ha permesso di fare la vita che ho fatto e per esempio di essere con te al telefono a parlare di un disco invece che andare, che ne so, a camminare nelle steppe per recuperare un po’ di acqua potabile.

A fronte di tutte le scuole, le letture, quello che ho fatto, i Ministri e così via, il grosso del perché siamo qua a parlare di questa cosa io e te è perché mi è andata incredibilmente di culo di nascere a Milano nel 1982.

Federico Dragogna: tutto è incredibilmente autobiografico

Tu che scrivi e hai scritto di musica sui giornali conosci il giochino che si fa ascoltando un disco per la prima volta: questa mi ricorda tizio, questa somiglia a quest’altro… Sentiti libero mi ha fatto pensare a un ragazzo di Ferrara con cui mi pare tu abbia avuto a che fare, Vasco Brondi… c’è qualcosa della sua scrittura in questo pezzo? E quali altri influssi hai fatto entrare in questo disco?

Il rapporto con Vasco, che peraltro continua, è sempre stato molto profondo, di scambio continuo. Anche se la cosa buffa è che noi ci conoscemmo su MySpace, scrivendoci nel 2006. Lui stava uscendo con i primissimi pezzi, io con il primissimo disco dei Ministri, e in qualche modo stavamo cercando di fare le stesse cose rispetto all’idea della canzone italiana, anche se con delle forme diverse, però ci incontrammo abbastanza come due persone che hanno avuto la stessa idea. Poi ci siamo reincontrati per lavorare insieme più avanti, però credo che siamo stati uno di ispirazione per l’altro in una maniera molto forte.

Dall’altra parte tanto le letture sono di ispirazione in questo momento sul testo, mentre ci sono cose internazionali, come Kae Tempest o Slowthai, che mi hanno ispirato su come mettere tante parole su della musica senza che sia hip hop. Cosa che accomunava anche me e Vaschino da tempo immemore.

Il mio secondo lavoro mi ha colpito particolarmente perché la trovo molto schietta e suppongo anche molto autobiografica. Come nasce?

Quasi tutto è incredibilmente autobiografico, anche quel pezzo lì. Ti dirò che il pezzo forse nasce esattamente da un’immagine che c’è nella prima strofa e di cui chiunque può fare esperienza. E sono le telecamere della metro: a Milano ci sono delle telecamere della metro per cui a un certo punto, per un rimbalzo di visioni, puoi vederti da dietro. Cosa che tra l’altro è super comodo perché fa rima con “metro”…

Al di là di questo, a un certo punto vedo questa figura e dico: perbacco, ma quello sono io! E mi sono accorto di come avevo i capelli dietro. E i capelli dietro in quel momento li avevo che sembravo un fan sfigato dei Duran Duran.

I capelli me li taglio da solo, allo specchio, quindi sempre succede che la parte dietro, non riuscendo a vedere e non avendo un sistema di telecamere come in metropolitana, la parte dietro rimane lunga, con quell’effetto “mullett”. E quindi mi sono reso conto che la gente letteralmente mi vede così in continuazione: quella cosa lì ero io. Questo, insieme a tanti altri aspetti del “vedersi da fuori come ti vedono gli altri” mi ha fatto rendere conto come ci sarà sempre una distanza incolmabile.

Il che mi ha anche fatto pensare che ci rinuncio a sapere come sono i miei capelli dietro. In parte ti fa pensare anche a tutto il lavoro che si fa sui social di rappresentazione di se stessi ha qualcosa di simile. Ci sarà sempre un mullett dietro di cui non riesci a tener conto.

Però d’ora in poi ti taglierai i capelli nella metropolitana di Milano…

Devo fare così! O trovo un altro metodo o devo far così…

Oltre che autore, ora cantautore, musicista sei produttore stimatissimo: che cosa ti piace e che cosa non ti piace nella musica italiana contemporanea?

Io sono sempre contento di pensare che ogni tanto delle cose enormi e anche bellissime, dato che sono un grande ottimista e pieno di speranza nel mondo tutto. Questo può valere, che so, per i film della Pixar: trovo che siano dei capolavori e li conoscono tutti quanti. Qui in Italia, per fare un paragone, questo può valere per esempio per Colapesce e Dimartino: è un lavoro accessibile a tutti, con melodie pazzesche però anche con testi pazzeschi. Ieri ho visto quel programma in Corea dove hanno rifatto Splash, bellissimo!

O anche Madame, tante cose di Mahmood che ho sentito… Il fatto che in Italia delle eccellenze raggiungano tutti quanti è una cosa che comunque mi fa sempre pensare: “Wow, ma che bello”. E mi fa pensare anche che io posso fare tutti gli sforzi che voglio. Magari a un certo punto incontreranno un pubblico più ampio. E magari no: per come sono fatto sarei stupito se il tipo di cose che penso e che racconto raggiungesse un pubblico più ampio. Ne sarei davvero stupito e mi basta il pubblico che ho avuto finora sinceramente (ride).

Mi piacerebbe soltanto che l’attenzione che ha la musica in Italia fosse diluita su più vetrine e più occasioni. Invece di avere il Sanremo che per una settimana e mesi a seguire monopolizza tutto quanto, che ci fossero, non dico troppi, ma quattro Sanremo all’anno. Che si chiamino in modo diverso, che coinvolgano altre regioni, con il supporto delle gare.

Penso che sia pieno di ragazzi che fanno cose molto belle, così come ci sono molte cose insulse. Ma al di là di quello vorrei che l’attenzione dei media sia concentrata non soltanto in quella settimana lì ma lungo tutto l’anno. Ci guadagneremmo tutti.

So che hai già iniziato a girare in tour con questo disco. Mi racconti le prime sensazioni di essere live senza “divise” addosso?

Le prime, che sono state proprio un paio di occasioni abbastanza piccoline, sono state letteralmente chitarra in braccio e non più di questo. Da questo sabato partono le date con una band che ho tirato su: alla batteria Emanuele Tusoni, alle tastiere Andrea Ragnoli e al basso Filippo Caretti.

Non ho idea di che cosa proverò, non tanto di come verrà: di quello credo di avere idea perché sono dei bravissimi musicisti. Il live è tutto suonato, no sequenze, no computer eccetera. Ma di cosa penserò e cosa mi passerà per la testa non lo so. Una piccola sensazione che ho provato in questi primi assaggi di live da solo è che forse ho raggiunto un’età o anche una pace per essere tranquillo con tutti i miei limiti. Con le cose buone che posso dare ma anche i limiti su come sono fatto, se l’equilibrio del live è troppo drammatico o troppo acceso. Questo mi interessa meno.

Ho delle cose da dire, sono sicuro di volerle dire e di volerle ripetere. Ciò mi basta. Se questa cosa incontrerà l’attenzione di chi ho davanti sono contento, ma se non la incontra non è un dramma. Non penso di essere in discussione io.

Pagina Instagram Federico Dragogna

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