Il loro ufficio stampa lo definisce “cultural terrorism in lo-fi pop” e la definizione non sembra lontana dal vero: il progetto Gattuzan nasce a Foligno, nell’estate 2011 da un’idea di Andrea Tocci (voce) e Federico Elia Marchetti (chitarra – voce). Il duo compone e registra in qualità homemade una veramente notevole quantità di canzoni e nell’estate 2012 decide di ampliare la formazione arruolando Alessio del Rosso (basso-voce), Lorenzo Possanzini (Synth-voce) e Rinor Marku (batteria).
In un anno di attività, la band riesce a scrivere e arrangiare un poderoso doppio album d’esordio. Dolcevita è uscito per Astio Collettivo e noi abbiamo rivolto qualche domanda alla band.
Potete riassumere la vostra storia fin qui e spiegare il nome della band?
GattuZan è l’ultima parola di un breve componimento del Marchetti, illustre poeta della nostra città. Poesia che parla del vento funesto che sbatte tra le pareti di una serra. Per circa 2 anni (2011 – 2013) abbiamo fatto di tutto per non diventare una vera e propria band nonostante quello sia stato il periodo di maggior flusso creativo per quanto riguarda la genesi di “DolceVita!”.
Registravamo idee durante delle vere e proprie Cenae Trimalchionis a Uppello, tutt’ora nostro quartier generale. La necessità di provare a suonare i pezzi insieme in sala prove e di svilupparli per farne un disco è scaturita dall’idea che stavamo scrivendo ciò che avremmo voluto ascoltare in quel periodo.
Partire con un disco doppio è una scelta coraggiosa: che cosa vi ci ha spinto?
Quello che sembrerebbe un suicidio discografico è in realtà pura volontà di potenza. Fare un doppio è da codardi, comunque. Ci nascondiamo nell’abbondanza, noi, figli di Trimalcione e Mazzarò.
Molte canzoni sembrano suggerire un percorso e poi prendono sterzate improvvise che portano l’ascoltatore in posti del tutto diversi. Qual è il vostro metodo di composizione, se ne avete uno?
I cambi d’atmosfera, soprattutto apparentemente senza alcun minimo senso, sono una costante nel nostro modo di scrivere. Buttiamo giù melodie e strutture per poi farci qualcosa che sia soprattutto divertente da suonare.
Quali sono state le difficoltà maggiori nell’assemblare una tale quantità di canzoni?
La difficoltà maggiore è stata scegliere i brani da inserire nell’album in tempi abbastanza stretti. In studio abbiamo registrato 42 pezzi e in “DolceVita!” ne sono finiti “soltanto” 32. Giorni duri nei quali il tabacco finiva sempre nelle pietanze che ingerivamo e scrocchiava tra i denti.
Siete già al lavoro per un nuovo disco, previsto per fine 2016. Potete darci qualche anticipazione?
Sicuramente ci saranno meno canzoni rispetto a “DolceVita!” ma anche in questo caso abbiamo accumulato una notevole quantità di materiale su cui stiamo lavorando da un po di tempo. Ancora non abbiamo una visione completa del nuovo disco ma quello che sta uscendo fuori ci fa ben sperare.
Potete raccontare (in modo comprensibile anche ai non esageratamente tecnici) la strumentazione principale che avete utilizzato per suonare in questo disco?
Strumenti di bassa qualità portati su a Correggio (RE) con un bla bla car eccetto un ottima batteria artigianale fatta da phonika drums e amplificatori, tastiere e pianoforti elettrici vari e strumenti di registrazione ottimi messi a disposizione dall’Igloo Audio Factory e da Andrea Sologni. Abuso di pedalini, percussioni tribali, urla disumane e tanto cuore.
Chi è o chi sono gli artisti indipendenti italiani che stimate di più in questo momento e perché?
Ci piacciono molto i Chewingum perché propongono una formula musicale personale e varia. Ottimi arrangiamenti e l’aver trovato un buon modo di usare l’italiano. I Progetto Panico perché scrivono pezzi della madonna e stessa cosa per Maria Antonietta. Poi nel cuore abbiamo i Da hand in the middle (“l éducation sentimentale” è un album fatale). Tuttavia non ascoltiamo molta musica italiana.