Vestito arancione, sorriso e un po’ di curiosità negli occhi: Joan Thiele si muove con grazia negli uffici Universal di Milano, in una giornata calda di giugno: quest’anno non è proprio un’ovvietà.

La ragazza italo-colombiana è qui per presentare alla stampa il suo nuovo Tango, un ballo molto pop ed estremamente colorato, ma anche con strati multipli che prendono origine dalle radici di Joan (qui la recensione del disco).

Un tango che è un ballo ma non è soltanto un ballo. “Tango” è la parola latina che significa “toccare”, non soltanto fisicamente, ma anche a livello di emozioni.

joan thiele“C’è un riferimento alle mie origini sudamericane, ma per me rappresenta il fatto di toccarsi, emozionarsi, arrivare alle persone. Tango è nato due anni fa in Colombia, ad Armenia, vicino a Bogotà, dove vive mio padre con suo fratello gemello. E’ stato un viaggio molto forte per me. Sono partita e sono andata a trovarli in un periodo difficile, in cui mio padre stava molto male. Il viaggio mi ha portato ad affrontare le mie paure e la mia vita in quel momento.

E’ stato molto bello e importante, perché a un certo punto mi sono completamente liberata e sono nate le canzoni. Sono riuscita a esprimere tutto quello che avevo dentro, quindi piano piano canzoni e suoni hanno preso forma. E’ stato molto importante avere questa duplicità nella mia vita e nel disco: la Colombia, la natura ma anche la parte più elettronica che rappresenta la mia casa, la mia parte più europea, la mia mamma.

Per me si tratta di un disco importante perché mi sento molto cresciuta a livello personale di esperienza e di vita. A prescindere dalla musica, che poi il disco piaccia o meno. La cosa che mi è piaciuta nel vivere questo disco è che ho sentito un cambiamento dentro di me. Tutti i giorni cambio, tutti i giorni mi viene da scrivere canzoni completamente diverse. Ti sembra di essere un po’ Psycho perché ieri hai scritto questa, oggi hai scritto quella e i suoni cambiano, i riferimenti cambiano…”

Nel disco ci sono tratti passionali che possono far pensare alla passionalità del tango, inteso come ballo…

Cocora è la canzone più vicina al concetto. Cocora è una montagna e la Valle del Cocora è di fronte a casa di mio padre e di mio zio. Ho immaginato di essere una bambina e di avere qualcuno, o forse i miei genitori, che mi raccontasse questa poesia, che mi raccontasse quello che era tango, quello che può significare emozionarsi.

Quando parlo di due corpi che si uniscono parlo proprio del riuscire a comunicare. Non è sempre facile neanche con se stessi. Ci sono dei momenti in cui non ci si riesce a comprendere, non si riesce ad avere il contatto con sé. Tango per me è questo: avere passione non soltanto per gli altri ma anche per te stesso e per quello che fai.

In questo disco la produzione è stata diversa su ogni brano, proprio perché ogni brano voleva raccontare qualcosa di diverso. Anche il suono, dal mio punto di vista, segue sempre le parole e perciò voglio che la produzione nasca insieme al brano.

Il mio processo creativo dipende da dove inizio a scrivere: se io apro il computer e mi piazzo su Ableton con il mio tastierino, magari creo un mondo e poi lo associo a una canzone che avevo già scritto, ma più spesso viene tutto insieme.

Hai la tentazione di scrivere in italiano?

Probabilmente scriverò in italiano: la lingua non dev’essere limite. Non dovrei dire: “Voglio scrivere soltanto in inglese”. Ho fatto questo pezzo in spagnolo (Azul, ndr) proprio perché volevo far emergere di più il tango. Vorrei che fosse la comunicazione ad arrivare, piuttosto che il limite della lingua, che poi non è un limite perché la nostra è una lingua stupenda. Il giorno che scriverò in italiano sarò molto felice.

Ma non la vivo come una pressione, cioè che devo iniziare a cantare in italiano per forza. Ovviamente farò delle cose in italiano perché sono italiana. Ma non punterei tutto su quello o sull’inglese. L’importante per me è fare musica.

Hai dichiarato che uno dei modelli che potresti prendere come riferimento per scrivere in italiano è Calcutta…

Stimo molto Calcutta, così come mi piace molto come scrive Colapesce, ci sono diversi artisti italiani che reputo molto validi nella scrittura e che hanno creato uno stile e hanno dato vita a un proprio movimento.

In maniera sorprendente, considerando la tua età e il tipo di musica che fai, hai dichiarato che se potessi scegliere qualcuno con cui collaborare penseresti a Robert Plant

Sì! Oppure Paul McCartney… Ho iniziato mitizzando i Led Zeppelin. Io non avevo particolari riferimenti, i miei genitori non sono mai stati appassionati di musica tanto da inculcarmi qualcosa. E’ successo però che la mia vicina si casa, che era anche la mia baby sitter, che ascoltava i Led Zeppelin tutti i giorni, io avevo 11 anni e ho iniziato ad assorbirli.

Poi già strimpellavo un po’ la chitarra e suonavo cose minori o anni Novanta, e volevo diventare Jimmy Page! Poi i miei ascolti sono cambiati tantissimo. Tanto che a volte mi chiedo: “Ma mi piace quello che faccio?”

Joan Thiele

Affermazione e domanda che richiede sicuramente qualche precisazione in più…

E’ strano, non vorrei essere travisata. Ma ci sono cose che ti escono nonostante i tuoi ascolti siano completamente diversi. Quindi non è più una questione di genere, ma piuttosto: sto raccontando qualcosa e a me viene fuori in questo modo qua. “Vestito” e produzione sono un’altra cosa. Ma io in definitiva non posso essere i Led Zeppelin, o qualche altro cantante che stimo e amo. Devo trovare quello che sono io.

A volte combatti con i “mostri” interni, ti dici: “Questa canzone è troppo pop”, ma poi capisci che devi accettare che ci sia la canzone più pop, quella con più chitarra, con meno parole. Devi accettare te stesso e lavorare per migliorare.

La cosa bella di questo disco è che io lo posso suonare e cantare anche soltanto con un chitarra, nonostante sia molto pieno di elettronica. Questo mi piace perché ci sono diverse cose dentro, può essere intimo o anche no.

Quali sono le tue colleghe italiane che ti piacciono di più?

Mi piace L I M, la trovo molto brava, mi piace Giungla, e poi c’è Claudia, Levante che è mia amica.

Com’è stata l’eperienza al South by Southwest?

E’ stato molto intenso, il viaggio all’estero è sempre impegnativo anche perché ti fai un sacco di sovrastrutture mentali, poi l’importante è andare dritti per la propria strada e far sentire ciò che vuoi far sentire a prescindere dal luogo.

Il South by Southwest è uno di quei posti in cui magari hai davanti cinque persone ma di quelle cinque ti capita magari sotto il palco Tiny Desk. E’ interessante per le connessioni, non tanto per il pubblico in generale, perché è molto settoriale e per addetti ai lavori.

Poi la città (Austin, Texas ndr) si anima quindi suonano ovunque, nei bar, sopra i tetti. Ho visto un concerto bellissimo di Kaki King sul tetto di un camion: aveva la chitarra bianca con un piedistallo e proiettavano sulla sua chitarra, facevano mapping, bellissimo”.

E invece con il Red Bull Music Studio?

Molto bella: Red Bull mi ha messo a disposizione uno studio di registrazione, un truck di 30 metri, per un mese e mezzo. Ho avuto la possibilità di lavorare al disco e registrare tutto. Il truck è stato messo in campagna fuori Milano, vicino alle mucche… E’ il sogno di chiunque suoni andare a registrare in un camion e andare a mangiarsi panini alla fattoria!

Hai parlato delle tue radici colombiane. Che cosa puoi dire di quelle italiane?

Sono bresciana ma mia mamma è napoletana, capitata a Brescia per caso. C’è anche questa “combo” di Napoli, che amo e apprezzo, come apprezzo quella bresciana. Al ritorno dal Sudamerica sono cresciuta a Desenzano, sul lago di Garda, che è comunque la mia casa, dove vive mia madre, mio fratello e rappresenta un pezzo di cuore. La mia parte italiana è fondamentale perché è mia madre, e mia madre mi ha insegnato un sacco di cose. Ogni volta che la guardo mi rendo conto di quanto sia luce, e di quanto sia importante avere una madre del genere.

Come mai la scelta radicale di pubblicare il disco soltanto in digitale?

Mi sono resa conto che nel pc e nell’auto non ho più lo spazio per inserire cd, perciò mi sono domandata quale fosse il senso di pubblicare il cd in maniera fisica. E siccome oggi la musica è fluida ed è digitale e raggiunge tutti, abbiamo pensato che potesse essere una buona cosa concentrarsi sul formato digitale. Poi spero che più avanti si possano staJoan thielempare delle copie in vinile.

Il video di “Polite” è stato fatto in diretta Instagram: com’è nata l’idea?

Ero a casa con gli Etna e il mio ragazzo, durante una giornata di brainstorming, pensando a cosa fare con questo video. Abbiamo pensato di organizzare una festa in casa: accendiamo Instagram, facciamo una diretta, ma ci siamo detti anche che forse sarebbe stato forse un po’ banale.

Però ci era balenata l’idea che fosse tutto in diretta, che fosse più una performance live che un videoclip. Il brano, per quanto sia allegro e provocatorio, ha un significato importante per me perché ha un senso di libertà sessuale e mentale, l’ho scritto con una mia cara amica inglese, la cantautrice Kadija Kamara a Londra.

Volevo che questo brano avesse il vestito adatto, siccome siamo in un periodo in cui tutto deve essere tutto perfetto, fisicamente bisogna essere perfette, supermagre, ci dev’essere un determinato canone per tutto, ho pensato che fare una performance live che avesse un margine di errore fosse più forte, come messaggio.

Quindi abbiamo organizzato una festa in un locale, con un regista molto bravo, Federico Brugia, abbiamo studiato un percorso, alle 8 abbiamo invitato amici e pubblico, abbiamo fatto un countdown per rendere tutto reale e quindi via: se si sbagliava si sbagliava, ma era quello. E così è stato.

Hai passato un periodo lungo in Inghilterra. Quanto è stato importante anche a livello di ascolti e influenze?

joan thieleE’ stato fondamentale per il mio primo approccio con il live. Per imparare ad ascoltare. Il mio approccio con i festival, da Glastonsbury a Green Man, me li sono fatti tutti… E ho capito che avrei voluto intraprendere questa strada in modo serio. E’ fondamentale perché ho tanti amici che tutti i giorni mi insegnano qualcosa. Londra rimane per me un punto di riferimento molto importante, faccio avanti e indietro molto spesso perché penso che sia un luogo magico per la musica.

Ci sono riferimenti al colore blu nel disco. Cosa rappresenta la Blue Tiger?

La tigre blu nasce da una storia che mi raccontò mio zio quand’ero piccola. Non vidi mio zio per anni. Quando lo rividi gli chiesi dove fosse stato. Lui mi disse: “Sai tesoro, io vivevo con le tigri”. Mi ero immaginata mio zio come una sorta di Sandokan, di uomo che viveva in mezzo alla giungla. Ma era una metafora: ha vissuto in pieno gli anni più tosti della FARC, anni importanti anche a livello sociale e politico in Colombia. Quello che mi voleva raccontare era tutt’altro insomma: un periodo duro e privato della sua vita.

Da lì è nata la storia della tigre: me lo sono immaginato come se fosse una tigre blu, diversa da tutte le altre. In questa canzone racconto la sua storia, dal punto di vista della sua compagna, della donna che lo stava aspettando. Alla fine la tigre blu torna a casa.

Qual è il tuo brano preferito sul disco?

Tango è il mio preferito, perché racconta il mio amore per lo strumento, per la chitarra, per le corde, per il legno, per la strada.

Com’è nata la copertina?

joan thieleLa persona più importante della mia vita è mio fratello Giovanni, di 19 anni. Per me è un piccolo genietto, abbiamo padri differenti ed è una persona molto speciale e ho il piacere di lavorare con lui perché lavora sulla grafica. Abbiamo deciso di fare la cover di questo disco insieme, come anche del disco precedente, ed è bello lavorare con una persona così giovane e che stimo così tanto.

Volevamo fare una copertina forte a livello visivo, non la solita foto in cui magari esco meglio, sono fisicamente più bella, ma volevo che avesse più forza a livello d’impatto, con i colori, il blu e il rosso, che ci sia un riferimento al tango ma che sia completamente disorientato dal lettering con le fiamme.

Mi dava l’idea di una cosa talmente “al contrario” che distoglie dal senso di un album di genere tango. E’ una cosa a metà tra uno spettro e un papavero, mi piaceva l’idea che uscissi da un fiore, o che non si capisca bene che cosa sia, ma che si possa ricordare, come un logo.

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