Di Fabio Alcini
Non è una reunion, ma forse dovrebbe: i La Crus tornano “a casa” (oppure sul luogo del delitto) con la riproposizione dello spettacolo Mentre le ombre si allungano e con una formazione a due Mauro Ermanno Giovanardi–Cesare Malfatti per l’ultima delle tre date milanesi al Teatro Elfo Puccini di Corso Buenos Aires.
E mentre fuori la città corre come sempre, anche solo per prendere un frullato e muoversi nella calura, dentro le segrete del teatro si prepara un rituale che è figlio della canzone quanto del teatro, rispettando criteri, crismi e necessità del palco.
La scena è allestita con un grande schermo che manderà spezzoni di filmati e tante parole, sulla sinistra di chi guarda una pedana sulla quale trova spazio una poltrona zebrata, un tavolino con un’abat-jour e anche due scarpe vecchie appoggiate con noncuranza, e sulla destra la consolle che fornirà tutta la musica necessaria. Figli di Strehler, di Gaber, soprattutto di Milano e degli anni Novanta, sono chiamati a regolare il proprio livello di intensità per vedere se è ancora al passo con questi tempi strani.
Entra per primo Malfatti, che inizia a mettere i vinili, e Giovanardi poco dopo, nel silenzio della sala. La finestra di casa mia apre uno spettacolo che sarà inframezzato costituito sì dalle canzoni del gruppo, ma anche dai testi di canzoni recitate. E c’è un contrasto già forte tra la voce di Giovanardi recitante, spezzata, quasi malata, e quella forte di quando canta.
Ecco Natale a Milano, mentre è impossibile non notare la separazione fisica costante tra i due, con il grande schermo in mezzo e la scena bilanciata con equilibrio ma anche con distacco.
Risata isterica e ritmi quasi industrial per Notti bianche, testimonianza di retrofuturismo, una sorta di steampunk musicale. Le luci al neon dei baracchini arriva semplice e ossessiva, tornando per ricordare la forza intima dei pezzi della band, chiusa dall’armonica a bocca sofferente di Giovanardi nel finale.
Riverso sulla sua poltrona zebrata il cantante attacca poi Le cose di ogni giorno, manifesto di quotidianità. I due si avvicinano quando parte Stringimi ancora. Il sempre presente maestro Tenco è omaggiato con Angela, molto più drammatica dell’originale e perfettamente aderente al tessuto dello spettacolo.
Vestiti di nero entrambi, ma con stili differenti (maglietta per Giovanardi, camicia per Malfatti) i due sembrano vivere vite parallele su questo palco. E attaccano Buco di pietra, in cui tornano i parossismi elettronici e i rumori taglienti.
Dopo aver recitato il testo di Inventario, arriva Qui vicino a te e richiede un po’ di elettricità. Giovanardi la canta quasi sdraiato ad aggiungere pathos al tutto. Ma è in piedi quando arriva Dentro me, salutata da applausi molto lunghi (ma vale per tutto lo spettacolo, in realtà).
I contrasti di Nera signora prevedono che Malfatti prenda il centro della scena con la sua chitarra acustica, pulita e intensa. I testi recitati riempiono gli spazi vuoti anche fisicamente, perché Giovanardi lascia andare i fogli sul palco, in disordine volontario.
Ci sono rigurgiti quasi techno quando arriva Correre correre, quasi scioccante nella sua velocità violenta. Torna subito Dentro me, con Malfatti che stavolta si siede accanto a Giovanardi.
Squarci di luce in più per L’uomo che non hai, mentre si va verso il finale con Sarà domani. I due escono in silenzio come sono entrati. Tre chiamate in scena e infine ecco i bis: Il vino di Ciampi, proposta fin dal disco omonimo d’esordio del ’95, è presentato da Giovanardi con “Facciamo un pezzo così lo cantiamo insieme”, e interagisce con il pubblico chiedendo di fare il coro.
Svariati minuti di applausi convinti prima che si aprano le porte del teatro. Uno spettacolo maturo, intelligente, perfetto nello tempi. Ce ne vuole ancora, di questa roba qua.