La recensione: “Alone”, Spiral69
E’ uscito da pochi giorni (tre, per la precisione), Alone, il nuovo mini-album degli Spiral69, composto da sei tracce autoprodotte e masterizzate agli Abbey Road Studios da Frank Arkwright, ingegnere del suono che ha lavorato con numerosissime band di assoluta rilevanza, dagli Smiths agli Arcade Fire, dai Joy Division agli Editors.
Forte di un curriculum di tutto rispetto, che comprende tre lp, una collaborazione con Steve Hewitt, ex dei Placebo, svariati eventi internazionale di alto profilo e soprattutto il “marchio” lasciato da Lou Reed quando li scelse per la colonna sonora del suo documentario “Red Shirley”, il quartetto italiano presenta questo mini-lp come una svolta nella propria carriera.
“Alone” appare come un lavoro molto compatto e omogeneo, senza per questo perdere in varietà. Le atmosfere sono oscure come da abitudini del gruppo, che si muove agilmente tra atmosfere che possono richiamare alla mente tutto il range di tinte scure che va dai Depeche Mode ai Nine Inch Nails.
Si apre con We’ll find each other in the dark (a proposito di oscurità) e si chiarisce subito che si può fare uso dell’elettronica e drum machine molto 80s, a patto di non farne il cuore delle canzoni, ma soltanto un importante ornamento.
Naked è forse il pezzo più “pop” del disco, con un ritornello che rimane in testa già al primo ascolto (il che non vuol dire che abbiano le valigie pronte per Sanremo, ma magari che possano richiamare l’attenzione delle radio). Il pezzo è molto lineare ma potente, con un ritmo alla “Personal Jesus”.
Si rallenta un po’ con You’re mine, che come spesso succede con gli Spiral69, parla di sentimenti contrastati, di rapporti difficili, insomma di complicazioni che non ti aspetteresti da una band che prende il nome da un porno tedesco degli anni Ottanta.
Rose parte con l’organetto delle giostre, ma poi si inabissa tra malinconie e sentimenti cupi. Molto più elettrica e molto più Interpol/Editors/Joy Division When the Angels Leave, che ha un ritmo piuttosto alto e marcato di batteria e che presenta un lato meno cupo della band.
Si chiude con Cruel, che inizia epica e prendendola un po’ alla lontana, fra trombe e tamburi, ma poi rientra in un alveo più classico pur restando abbastanza altisonante.
Ci sono molti elementi in queste sei tracce che fanno pensare a una maturità conquistata per gli Spiral69, che pur non alterando il nucleo fondante della propria musica hanno ampliato gli orizzonti a livello sonoro.
Virtù sicura di “Alone” è la capacità di interessare a più livelli: ci sono pezzi più catchy e altri che necessitano di filtrare attraverso livelli diversi. Se manca qualcosa, è il pezzo che scombina completamente le carte e che ti spiazza del tutto. Forse è soltanto rimandato al prossimo album.
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[…] rock internazionale, un ottimo seguito e tre album. Ma il mini-album di sei tracce (qui la nostra recensione) è a tutti gli effetti un nuovo inizio per la band. Come da consolidata abitudine, abbiamo fatto […]