Il suo nuovo disco si chiama “Tutto brucia” (qui la nostra recensione), e le canzoni di Monica P vogliono essere senza dubbio incendiarie. Monica Postiglione ha pescato a piene mani nel mondo dell’indie rock per produrre un disco che arriva molto tempo dopo l’esordio, “A volte capita”, che ebbe un buon riscontro grazie soprattutto al singolo “Libera”.
Questo disco arriva qualche tempo dopo “A volte capita”. Che cosa è successo e che cosa è rimasto, nel tuo lavoro di oggi, dei tuoi inizi?
Dall’uscita di “A volte capita” a quella di “Tutto brucia” in effetti sono passati 3 anni e mezzo, tempo in cui sono successe molte cose nella mia vita. Mi sono chiesta cosa volessi dire veramente, ho scritto molto, ho attraversato periodi anche difficili, che hanno impregnato i miei testi di quella fragilità umana che emerge nei brani. Ho cercato i musicisti giusti, che potessero aiutarmi a rendere al meglio quello che avevo in mente. Ho rinnovato il sound, i collaboratori, l’etichetta.
Un cambiamento apparentemente radicale, ma la Monica P di adesso in fondo è la stessa del primo disco, ancora ribelle, indipendente, tormentata e determinata, credo solo più matura. E poi, ad essere sincera, il vero motivo della rallentata uscita di questo nuovo disco è stato un evento molto importante e non poco impegnativo: ho fatto un figlio! Ho missato i brani all’ottavo mese di gravidanza, quindi come capirai, tutto era già quasi pronto molto tempo prima, ma dovevo aspettare che il piccolo avesse almeno un anno per poter tornare sul palco a suonare. Ne è valsa la pena!
Ci sono differenze marcate tra i pezzi del tuo disco, a volte anche nel tuo modo di cantare. Nasce in periodi differenti o è una scelta stilistica dettata da altri motivi?
Sì, ci sono brani più psichedelici e d’atmosfera e altri con un taglio un po’ più rock. Le canzoni nascono ovviamente in momenti diversi e quindi descrivono i miei stati d’animo diversi, che comunque mi pare mantengano un filo conduttore. Anche la partecipazione di musicisti differenti porta ad arrangiamenti e sound più vari. Sicuramente il mio non è un disco studiato a tavolino. Ritengo queste diversità un pregio, danno più varietà all’ascolto e ritraggono maggiormente le numerose sfumature della mia personalità. Il mio modo di cantare si è adattato ai brani e a quello volevo raccontare.
A un primissimo ascolto del disco, musicalmente parlando, sembra che per scelta si passi dall’acustico all’elettronico saltando la fase elettrica (eccezion fatta per un paio di assoli di chitarra in “Lucida” e in “Dove sei”). Da cosa nasce questa scelta?
E’ una questione di gusto personale e scelta stilistica. Mi piaceva l’idea di mantenere suoni acustici abbinandoli all’elettronica. Per quanto riguarda produzione e arrangiamenti ho dato alcune linee guida da cui non volevo allontanarmi, dopodiché ho lasciato che tutti si esprimessero secondo la propria sensibilità, ma non mi sono mai fatta problemi a dire cosa mi piaceva e cosa mi rispecchiava meno. Mi sono sentita molto più libera che nella produzione del mio primo disco.
Hai collaborato per il disco con artisti importanti come Hugo Race dei Bad Seeds. Come nascono queste collaborazioni e come si sono sviluppate? Ci puoi raccontare qualche aneddoto in proposito? Le collaborazioni di questo disco forse mi collocano ancora più di prima, in Italia, in una nicchia di pochi appassionati, ma fare quello che mi piace davvero, senza omologarmi per cercare di essere più commerciale o commerciabile, è quello che per me conta di più. Mi sono sempre riconosciuta in suoni e arrangiamenti molto poco italiani, lontani dagli assoli di chitarra fatti di seimila note e da copiose rullate di batteria. Antonio Gramentieri, con molta pazienza e professionalità, ha condotto il gioco mettendomi a disposizione la sua rete di contatti: ci siamo rivolti ad artisti come JD Foster e Giovanni Ferrario perché, nella direzione in cui volevo andare, erano i musicisti giusti, e il fatto che abbiano messo del proprio nella mia musica è un valore aggiunto e ne sono onorata. La stessa cosa vale per tutti quelli che hanno suonato in questo disco. Nessuno è stato scelto a caso, ma l’atto creativo, quello sì, è stato sempre spontaneo. Registrazioni “old style”, in presa diretta e con pochissima pre-produzione.
Artisti come Hugo Race hanno per me uno spessore e un valore particolari, specie in un panorama musicale come quello italiano, sempre più volto all’apparenza e poco alla sostanza. Lui è una persona molto impegnata, sempre in giro, che eppure trova il tempo di interessarsi davvero a tutto quello che fa. Quando abbiamo girato il videoclip di “Come un cane”, il brano interpretato insieme, è stato molto divertente. Alla scena dell’ipnosi, Hugo si è calato così bene nel suo ruolo di dottore (scelto da lui, tra l’altro), che non riuscivo a restare seria. Lì ho scoperto che ha cominciato la sua carriera come attore e che suo padre era un medico!