Costituisce già una realtà importante il trio siciliano formato da Angelo Sicurella, Roberto Cammarata (Waines) e Antonio Di Martino (Dimartino) e battezzato Omosumo, che ha alle spalle due ep e ora ha pubblicato Surfin’ Gaza (qui la recensione), un disco elettronic-rock-pop steso sulla base del conflitto arabo-israeliano. Ecco la nostra intervista.

Avete alle spalle due ep ma “Surfin’ Gaza” è il vostro esordio “lungo”: potete raccontare come siete arrivati fin qui?

E’ un esordio legato a un percorso che ha visto un cambiamento di pelle progressivo. Quando siamo arrivati a Ci proveremo a non farci male, quei brani appartenevano a un’esigenza particolare di quel periodo. Dopo l’uscita dell’ep sentivamo il desiderio di scostarci un po’ da quello che avevamo finora scritto.

Un paio di viaggi fuori dall’Italia ci hanno portato a maturare quello che poi abbiamo riportato in Surfin’Gaza. Dal Maghreb al Messico, le esperienze di viaggio ci hanno portato a scrivere intanto delle strutture aperte, non per forza con un ritornello.

Ascoltiamo già da tempo musiche pakistane piuttosto che dal Mali o dall’India. Brani come Surfin’ Gaza sono venuti fuori nelle prime sessioni di registrazione; erano le prime bozze di quello che poi sarebbe stato il disco, ma già era abbastanza evidente la direzione in cui stavamo andando.

Potete raccontare com’è nata l’ispirazione che vi ha portato a trattare un tema ormai decennale ma sempre molto delicato come quello dei rapporti fra palestinesi e israeliani?

Ci trovavamo in una campagna sperduta nell’entroterra siculo e abbiamo suonato ore e ore, giorno dopo giorno per una settimana, portando in città quello che pensavamo fosse un nucleo fondamentale attorno al quale far girare tutta la musica del disco.

Insieme a un paio di frasi che aggiungendo e depennando facevano i primordi dei testi di alcuni brani. Il concetto di Surfin’ Gaza nasce dopo, quando ci siamo imbattuti in questa storia di palestinesi e israeliani che davanti a una tavola da surf facevano del mare un porto franco da ogni torto o ragione di storia o di religione; è stata un’immagine che ci ha colpito molto, abbiamo capito che quello che stavamo cercando era da quelle parti.

Se un cantautore vecchio stampo realizza un concept legato a un tema politico o anche semplicemente a una storia forte, di solito parte dai testi e adatta la musica a ciò che vuole raccontare. Sono curioso invece di sapere quale procedimento avete adottato voi per costruire i brani che sono finiti sul disco.

Noi abbiamo pressappoco fatto tutto strada facendo. Testi si sposavano con la musica e musica di pari passo ai testi. A volte è un testo che ti trascina dentro a delle melodie che disegnano le linee di una possibile armonia del brano, a volte è il contrario.

Mi sembra che la title-track sia il punto nodale del disco e segni in qualche modo anche un cambio di ritmo. Come nasce?

Brani come Surfin’ Gaza, Nancy e Dovunque altrove nascono in quella prima settimana di registrazioni. Sono legati tra loro dalla fame d’Africa.

Nel passo e nel ritmo, nelle linee di basso, in certe melodie della voce o delle chitarre. Yuk nel frattempo rimaneva un segnapasso in attesa di stesura. Era ancora un nucleo che attendeva di essere sviluppato.

A quella prima sessione che abbiamo fatto in mezzo alla campagna, grosso modo in mezzo al nulla, ne è seguita un’altra in città, da cui sono venuti fuori gli altri brani del disco.

Quando venne fuori Surfin’ Gaza, che ancora non si chiamava così, avevamo capito che quella era davvero, come dici tu, un punto nodale; e fu una delle primissime a venire fuori.

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