Doveva succedere, prima o poi. Lo Stato Sociale si guarda alle spalle, si accorge degli anni che sono passati e delle cose che sono successe e ci fa un disco sopra. Anche se, paradossalmente, poi lo chiama Stupido Sexy Futuro.

Esce per Garrincha Dischi/Island Records il nuovo album, a sei anni di distanza dall’ultimo disco. Ed è una pietra: tombale, per certi versi, su una gioventù ricca di illusioni, di obiettivi da raggiungere, di successi. Ma anche una pietra sulla quale costruire qualcosa, se ci si riesce ancora.

Volevano le hit. Volevano i concerti negli stadi. Volevano un’altra vita in vacanza. Volevano un altro primo posto in radio. Volevano un Sanremo ogni due anni. Volevano un tormentone dell’estate. Ma noi non siamo una macchina da guerra. Non siamo un asset di mercato. Non siamo tagliati per il successo. Siamo cinque amici che a momenti facevano a botte, pur di ricordarsi che non è una gara, essere felici. Volevano così tante cose che non siamo che abbiamo quasi scordato chi siamo. Un Sanremo per cambiarlo per sempre e un’altro per ricordarci che non è casa. E un disco dopo sei anni, senza singoli, e con una trafila di amici, per ricordarci chi siamo, chi eravamo, e chi saremo. Una band che ha un popolo, non un target di pubblico

Lo Stato Sociale traccia per traccia

Qual è la musica che piace a Lo Stato Sociale? La risposta è semplice e complessa, e comunque sta in una canzone: La musica degli sfigati (con il Management). Semplice perché il giro su cui viaggia è abbastanza lineare, complessa perché questa musica degli sfigati è ricca di tantissimi elementi, tutti elencati nel pezzo, un altro non-manifesto generazionale.

Un limite di un milione di euro in una canzone pauperistica (più o meno), quasi comunista (oh cazzo!): Anche i ricchi muoiono è una canzone d’amore, anche se si tratta di un amore fatto bruciando bollette e occupando case (di chi ne ha almeno tre). Il verso “Ogni volta che suona questo amplificatore/un ricco muore e stappiamo champagne/comprato al discount” suona come la macchina che uccide i fascisti di guthriana memoria.

Ecco poi Ops l’ho detto, pensieri ad alta voce su ritmi techno, con Cimini e DrefGold. Un testo che renderà felici i leghisti (che però temo non siano molto in target con questo album, anche se sarebbe bello vedere Salvini che include Lo Stato Sociale in un elenco). Si chiude con una serie di sogni, ma non esattamente in atmosfera dreamy.

Ci sono cori in Pompa il debito, che ha qualche risonanza new wave, in un altro testo un filino tagliente. Greenwashing, sexwashing, operazioni di facciata che coprono una situazione sociale che sarebbe esplosiva, se soltanto ce ne accorgessimo. I ragazzi di Bologna, un po’ in stile Rino, fanno anche i nomi di chi era ricco ed è diventato ancora più ricco. Nessuno li censurerà, ma purtroppo è molto difficile che facciano ancora scandalo.

Ora di rallentare un po’ con Per farti ridere di me: si va sul personale e per fare una ballad con chitarra acustica e pianoforte sembra necessario farsi aiutare da un Mobrici in ottima forma. Le piccole cose importanti che si fanno e che (qualche volta) lasciano una traccia, in una storia finita ma ancora rimpianta.

I ritmi rimangono tranquilli con Vita di m3rda 4ever: ambizioni molto circoscritte sono esplicitate in un paese “di scemi al 40%”. “Vogliamo il pane ma anche le rose” cita famosi scioperi antichi. Un brano più rassegnato che incazzato, con qualche “u-u-uh”: “Una bella giornata sicuro non rovinerà la nostra vita di merda”.

La parte morbida del disco prosegue con Tutti i miei amici: un elenco di amici, famosi e non, soprattutto indie (Niccolò, Aimone, Appino, Edo e un po’ di altri) in un contesto poco monicelliano e ricco di rimpianti. Anche se “Tutti i miei amici sono qui questa notte“, a concludere un pezzo struggente come forse nemmeno ti aspetteresti.

Si viaggia in un cielo elettrico/elettronico con Senza di noi, che sa un po’ di Lucio Dalla anche se con un giro di chitarra che fa pensare a Battisti. Il brano parla di bicchieri e di notti, di nuovo di rimpianti, di passato, di emozioni che non si vogliono lasciare andare. La domenica, comunque, è una stronza. E si finisce per citare De Gregori, giusto per chiudere il cerchio.

Qualche riferimento agli Skiantos per Che benessere!?, rocketto acidino che funziona anche come investitura importante per Naska che si inserisce nel brano. C’è bisogno di cantare questo disastro, dove la paura è un po’ la nuova felicità. C’è spazio anche per un’autocitazione, in un classico brano dinamico e dolce-amaro (più amaro, a dire il vero).

Arriva come un sasso Fottuti per sempre, funerale dell’indie e anche delle idee giovanili. Il rock’n’roll non morirà, ma sono certe sensazioni che si sono infrante contro un muro fatto di establishment, commercio, celebrità e falsità. Vasco Brondi inchioda la bara ricordando tutte le ispirazioni che li hanno spinti fin qui: “Volevamo cambiare tutto/non riempire un vuoto di mercato”. Avere ragione è importante, anche se non cambia la sostanza dei fatti.

Si chiude con Filastrocca per un disco: desideri concentrati in un recitato, con pianoforte e poi gli archi che salgono un po’ per volta, a sostenere i pensieri.

Sentimenti, nostalgia, rimpianti, emozioni, intensità, idee, rabbia, contemplazione stupefatta delle rovine del presente: ce ne sta di roba in un disco solo. Soprattutto se si tratta di un disco che sa di importante, forse programmatico, sicuramente a chiudere un periodo bello e disperato, come questo nuovo de Lo Stato Sociale.

I ragazzi di Bologna fanno quadrato, esaminano quello che hanno fatto con occhio più spietato che ironico, si autodemoliscono e un po’ si ricostruiscono, cercano di capire che cosa sia rimasto non tanto in tasca ma davanti a sé, quali altre battaglie si possano combattere, su un campo di battaglia digitale o in un’osteria di provincia.

La risposta è semplice e complessa, perché così è la realtà, così è la vita e così è il mondo come abbiamo deciso di renderlo, ricco di sovrastrutture che ci illudono di essere importanti, di contare seriamente qualcosa. C’è soltanto una concreta speranza per il futuro, alla quale comunque vale la pena di cercare appiglio: che quelle “canzoni che scrivi a sedici anni sopra i cessi di un bar” contino ancora qualcosa, tanto da farci sopra un pensiero, una passione, forse un lavoro, magari addirittura una vita.

Genere musicale: itpop

Se ti piace Lo Stato Sociale ascolta anche: The Zen Circus

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