“Piangere/smetti di piangere/ho diecimila lacrime che puoi prendere in prestito/seguimi giù/nel sottosuolo/e ti canterò una canzone di tristezza”
Mark Lanegan, “Skeleton Key”
Nella foto in alto, così piena di vita e allegria, c’è Mark Lanegan. Una delle colonne sulle quali poggia la musica indipendente americana e il songwriting internazionale da metà anni Ottanta in qua. Eppure. Eppure Lanegan, di cui esce giusto oggi il nuovo disco, Straight Songs Of Sorrow, non è che sia proprio ammantato di fama irresistibile, almeno non quanto meriterebbe, anche a dire di alcuni colleghi. Complici scelte sbagliate, una vita tormentata, occasioni sfumate e un tempismo non sempre preciso.
Mark Lanegan è uno che ha perso parecchi treni. Nel 1986 è principalmente un tizio agitato che canta in una band (Wikipedia sezione italiana lo chiama “un teppista adolescente”, e quando Wikipedia ti dà del teppista, qualche casino devi averlo combinato per forza).
La band sono gli Screaming Trees. Se li conosci ti verrà da associarli con il grunge ma non sono proprio grunge. Intanto il grunge si identifica con Seattle e gli Screaming Trees sono di Ellensburg, che sta 100 miglia più a est. Ok, anche i Nirvana sono di Aberdeen che sta a 100 miglia a ovest, ma non sottilizziamo.
Gli Screaming Trees arrivano prima del grunge, lo anticipano e lo prevengono in qualche modo. Nel 1986 esistono già da un paio d’anni e pubblicano il primo disco, Clairvoyance, un misto di hard rock e psichedelia da cui i Doors grondano in maniera quasi imbarazzante, ma che influenzerà i gruppi che si stanno per affacciare sulla scena di Seattle.
Ma nel 1991, quando escono Badmotorfinger dei Soundgarden, Ten dei Pearl Jam e soprattutto Nevermind dei Nirvana, ad agitare i miei 18 anni, gli Screaming Trees sono già al quinto disco, Uncle Anesthesia e hanno perso il treno.
Non sono entrati nel novero dei grandi gruppi del grunge che stanno conquistando il mondo, al massimo dovranno accontentarsi della qualifica di padri (più o meno) nobili.
Lanegan nel ‘91 è un tossico con una voce che sta in qualche punto nella terra dei crooner, con un po’ di Jim Morrison nelle vene. Ma per obbligo di band, nella quale è entrato peraltro come batterista, si è reinventato rock vocalist. E’ chiaro fin da subito però che la sua vocazione sarebbe diversa: già nel 1990 ha pubblicato il primo disco da solista, The Winding Sheet, dai toni molto più pacati e oscuri.
Il brano con il maggior passato e il maggior futuro nel disco è Where did you sleep last night. Il pezzo è un classico folk tradizionale, ma nel disco è riattualizzato anche grazie all’intervento di un amico di Mark, Kurt Cobain, che interviene in duetto. Cobain e i Nirvana di lì a poco riproporranno il brano in una versione rimasta celebre nel loro MTV Unplugged.
Lanegan porterà avanti l’avventura con gli Screaming Trees fino al 2000, sempre con fortune non eclatanti. Ma continuerà anche la sua carriera solista, che prevede punte assolute come Whiskey for the Holy Ghost e Scraps at Midnight e soprattutto continuerà a collaborare con decine di artisti, finendo per diventare una sorta di magnete soprattutto per la scena indipendente non soltanto americana.
Si parlava di treni persi e uno è proprio con Cobain, con cui realizza un disco di cover del bluesman Lead Belly che non viene mai pubblicato. Invece sale sul treno giusto quando diventa il cantante dei Queen Of The Stone Age del suo altro amico Josh Homme. E poi ci sono collaborazioni con i Mad Season di Staley e McCready, un disco con Isobel Campbell dei Belle and Sebastian, i Gutter Twins con Greg Dulli e altri cento progetti con pressoché tutti i musicisti alternativi importanti. Mica male per un teppista.
Straight Songs of Sorrow: un disco figlio di un libro
Già dal titolo si capisce che Mark Lanegan è in forma e ha voglia di giochicchiare un po’. Straight Songs of Sorrow è un titolo che sa di Leonard Cohen, che gioca con le allitterazioni e che comunque parla di “Sorrow”, tristezza.
Che però non è affatto l’unico sentimento del disco: si parla d’amore, e di che altro vuoi parlare, per esempio con un canto d’elettronica e di confronto come This Game of Love, che ha bisogno di pochissimi elementi per emozionare. Mark Lanegan la canta in coppia con sua moglie, Shelley Brien, che rivela una voce un po’ faithfuliana, matura e molto calda.
Questo è un disco che parla di Mark, della sua vita, dei suoi fallimenti. Senza finzioni e con molta chiarezza. Non parla soltanto di Mark, a dire il vero: Ketamine nasce da un aneddoto su Genesis P Orridge che, sul letto di morte, dice al prete che per i riti funebri è a posto, ma se per caso avesse un paio di pasticche da passargli sarebbe grandioso.
Pochi giorni fa Lanegan ha pubblicato il suo nuovo libro, un memoriale dal titolo Sing Backwards and Weep, (una cosa come “Canta all’indietro e piangi”): anche lì, fin dal titolo non è che sia un trionfo di allegria e compiacimento. Motivi di rimpianto ce ne sono e chi lo ha letto (io ancora no) dice che il cantautore si racconta in modo brutale e poco autoassolutorio. Come si fa con le biografie A.D. 2020, insomma.
In pratica libro e disco viaggiano di pari passo, che può essere molto smorzato in certi casi, come nel singolo Skeleton Key, cadenzato e pieno di dolore che però spiega le proprie ali con dolcezza e moderazione. Anche per chiedere sincerità:
“Amami/non far finta di amarmi/ho perso abbastanza da accorgermi quando sono stato battuto”.
C’è tantissima musica “vecchia”, quella dei songwriter, quella delle rock band di una volta, nel disco. Che ha ospiti prevedibili, come Greg Dulli o Ed Harcourt, e altri un po’ meno probabili, come John Paul Jones, basso e tastiere nella cavalcata immortale dei Led Zeppelin, ormai turnista di extra lusso, che qui si dedica al Mellotron.
Le invocazioni sono numerose, tanto che si ha l’impressione di trovarsi di fronte a vere e proprie preghiere, sebbene piuttosto free. Ma in Skeleton Key si dice anche che “tutte le tue religioni sono una bugia”. Quindi a quale “Lord” si appella veramente Mark? Le risposte possibili sono molte. Una è la droga, che è presenza stabile e inquietante per tutto il disco: “I pay for this pain I put into my blood”, cioè “pago per il dolore che inietto nel mio sangue”. Be’ anche il dolore è un ingrediente irrinunciabile di un disco così e non potrebbe essere altrimenti.
Si parla di morte, tanto e spesso, sia per metafora, come nei “sei cavalli bianchi” che attendono il narratore di Burying Ground, sia come fato ineluttabile, come succede in Ballad of Dying Rover: “My Days are numbered/eternal slumber/Death is my due”. Ti viene in mente Nick Cave, forse il poeta della morte per eccellenza degli ultimi anni, ma con Lanegan, con questo Lanegan, sembra che le cose scivolino più tranquille, più naturali, anche se si parla dell’ultimo passaggio.
Man mano che ci si inoltra nel fitto del disco l’elettronica, che non sparisce mai del tutto, si dimostra però sempre più un pretesto sonoro per lasciare spazio a sensazioni antiche, cantautorali, profonde e a volte difficili da affrontare. Tipo la vita, insomma. L’elettronica è curiosamente più presente a livello ideale, come in Hanging On (for DRC), dedicata a Dylan Carlson, amico di Lanegan e pioniere della drone music, altro sopravvissuto agli eccessi degli anni Novanta.
Di questi tempi, Lanegan fa quasi un disco all’anno. Ma si capisce che questo è un po’ particolare e un po’ speciale. In parte perché parla davvero di lui, senza infingimenti. In parte perché è “figlio” del libro che ha scritto. E a dirlo è lui stesso: “Scrivendo questo libro, non sono arrivato alla catarsi. Tutto ciò che ho avuto è stato un vaso di Pandora pieno di dolore e miseria. Sono entrato e mi sono ricordato la merda che ho messo via 20 anni fa.
Ma ho iniziato a scrivere questo album nel momento in cui ho chiuso e ho realizzato che c’erano sentimenti profondi perché erano tutti collegati ai ricordi di questo libro. È stato un sollievo tornare all’improvviso alla musica. Poi ho capito che era il regalo del libro: questi brani. Sono davvero orgoglioso di questo album”.
Nel libro, Lanegan parla di se stesso in questi termini: “Ero il fantasma che non voleva morire”. Un fantasma che, incurante del tempo, con questo disco si dimostra ancora in grado di tirare calci molto forti e di far risuonare castelli maledetti.
Fabio Alcini