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Un folk rock “italiano” che prenda spunti e segnali dalla terra, senza scimmiottare modelli stranieri: questa l’idea di base del nuovo e settimo disco di Michele Gazich, cantautore e violinista che ha di recente pubblicato La via del sale (qui la recensione). Abbiamo scambiato qualche parola con lui.

Vorrei capire come nascono l’idea, il racconto e i concetti alla base de “La via del sale”

La scintilla nasce da un incontro. Un negoziante di dischi di Pavia mi porta ad un pranzo in un’osteria della zona con alcuni persone che apprezzavano la mia musica. Uno di essi, oggi uno dei miei più cari amici, comincia a parlarmi dell’Appennino che dalla pianura sale verso la Liguria, dove passava una delle maggiori vie del sale.

Decido di partire per un’esplorazione (che è durata poi anni) di queste vie, oggi sentieri di montagna o poco più, un tempo così importanti. Incontro luoghi, persone, strumenti… Prende forma il suono e l’idea per il mio album: un FolkRock effettivamente nostro, suonato con strumenti nostri, nel senso di italiani, mediterranei. Non la solita parodia di materiali anglosassoni.

“La via del sale” diventa poi una metafora per parlare dell’Italia e dell’Europa di oggi, di luoghi che avevano un senso, non ce l’hanno più e forse faticosamente ne troveranno un altro.

Come si sono sviluppate le collaborazioni del disco, in particolare quelle con Rita Lilith Oberti e Salvo Ruolo?

Rita era perfetta nella parte della madre. La sua voce non è figlia delle peggiori derive del melodramma, come il nostro pop e la maggior parte delle voci femminili nel nostro paese. Rita scolpisce le parole a una a una, sillaba per sillaba, e il suo registro vocale è grave. Non gorgheggia e non altera le melodie. Quando ho sentito la sua voce, mi sono messo al volante e sono andato a casa sua; le ho fatto sentire “Storia dell’uomo che vendette la sua ombra” per supplicarla di registrarla con me e lei ha accettato.

Salvo ha pubblicato uno dei più bei dischi che ho ascoltato negli ultimi anni: “Canciari Patruni ‘Un E’ L’bittà” (Cambiare padrone non è libertà), scritto in lingua siciliana. Avevo scritto una canzone dedicata al poeta siciliano Bartolo Cattafi e mi è venuto spontaneo pensare a Salvo per cantare la parte in siciliano inclusa nella mia canzone. La canzone si intitola “Barcellona, Sicilia”, dal luogo dove il poeta nacque, nome suggestivo e bizzarro, quasi come “Paris, Texas”. Ho poi scoperto che anche Salvo era nato a Barcellona in Sicilia e che la sua famiglia conosceva quella del poeta. Era proprio destino…

Come nasce “La biblioteca sommersa”?

Ancora una canzone nata da un incontro, in questo caso con Frank Deja, che sedeva tra il pubblico in occasione di un concerto a Colonia. Mi chiese di fare un giro con lui il mattino dopo il concerto. Mi promise che avrei visto cose interessanti. Vidi una voragine nella terra, in pieno centro alla città. Lì – mi disse – c’era la biblioteca della sua città, contenente anche gli archivi, la memoria  della città.

Il 3 marzo 2009 sprofondò nella terra e venne poi ricoperta dalle acque! Questa contemporanea scena biblica avvenne per costruire una metropolitana, che avrebbe permesso di risparmiare 8 minuti per andare da una parte all’altra della città. Sotto la città di Colonia, come sotto quasi tutte le nostre città, c’è una falda acquifera; erano state autorizzate quattro pompe per togliere lentamente e progressivamente l’acqua; per fare prima, ne furono messe in opera 23.

Se cercavo un simbolo per l’Europa di oggi, priva di memoria, purtroppo l’avevo trovato in questa biblioteca scomparsa: un luogo che aveva un senso e chissà se ne troverà un altro. Una contemporanea “via del sale”.

Michele Gazich e i gorgheggiatori pop

Puoi raccontare la strumentazione principale che hai utilizzato per suonare in questo disco?

michele-gazich-4-foto-paolo-brilloHo usato innanzitutto strumenti antichi o tradizionali per caratterizzare le mie canzoni, come la zampogna o il piffero dell’Appennino; non l’ho fatto per gusto archeologico o filologico, ma perché il suono che questi strumenti portano in sé, essendo stato dimenticato da tante orecchie, suona nuovo, non categorizzabile, dirompente: come quando Mozart inseriva lo sconvolgente suono del modernissimo (per la sua epoca) clarinetto nella sua orchestra o a Chicago si decise che il Blues stava bene con la chitarra elettrica…

Mi scuso per gli esempi troppo altisonanti per definire il mio umile tentativo di barbaro della musica, ma era tanto per capirci… Il piffero dell’Appennino è una sorta di oboe popolare, dal suono insieme potente e dolce: nel mio album è suonato da Stefano Valla. La zampogna è suonata da un giovanissimo musicista che ho incontrato, e in fondo scoperto, qualche anno fa, quando mi recai a tenere un corso di scrittura presso il suo liceo. Il ragazzo si chiama Jacopo Pellicciotti; il liceo era quello di Vasto, in fondo all’Abruzzo.

La zampogna lì nacque e poi i romani la portarono in giro per l’Europa e oggi sono più famose le gaite galiziane o le bagpipes scozzesi, ma, come dicevo, nacque nell’Italia preromana, nel Sannio, e Jacopo fa parte di un movimento che si occupa di valorizzare la zampogna originaria. Accanto a pifferi e zampogne, trovi strumenti contemporanei, come la batteria di Alberto Pavesi, il basso di Paolo Costola o l’elettrica di Marco Lamberti, perché, come dicevo all’inizio, non volevo realizzare un prodotto filologico per addetti ai lavori, ma un disco di canzoni, fruibile da tutti…

Non vorrei dimenticare il violoncello poeticissimo di Francesca Rossi, il clarinetto e il sax di suo sorella Alessandra, la tromba di Pietro Campi e naturalmente il mio violino, in tutte le sue declinazioni colte e popolari, e la mia voce. Sembra tanta roba, ma è organizzata in modo da non essere aggrediti da una valanga di suono! Il tutto suona comunque piuttosto scarno…

Chi è o chi sono gli artisti indipendenti italiani che stimi di più in questo momento e perché?

Ti prego di non ritenere questa risposta provocatoria o un tentativo di evitare la tua domanda. Sono totalmente sincero e motivato ed emergerà la mia nozione di artista indipendente, che non si rivolge necessariamente al contemporaneo. Innanzitutto Claudio Monteverdi (1567-1643), perché senza di lui non avrei ideato il mio stile di canto, il mio “recitar cantando”.

Lui ebbe l’idea di cominciare a scrivere i suoi madrigali a voce singola invece che a più voci, come si usava allora, per far comprendere il testo chiaramente; si oppose, come me oggi, ai gorgheggiatori pop e richiedeva un canto piano e senza tante volute (“La voce del testo doverà essere chiara, ferma et di bona pronuntia alquanto discosata dagli istrumenti, atiò meglio sii intesa nel oratione. Non doverà far gorghe né trilli…” Indicazioni ai cantanti, Monteverdi 1624).

Dopo Monteverdi, citerei Piero Ciampi (1934-1980), per aver inserito contenuti “imperdonabili”, urtanti ma terribilmente veri nei testi delle sue canzoni. Uno per tutti: “ Quel pugno che ti detti / è un gesto che non mi perdono / ma il naso ora è diverso: /  l’ho fatto io e non Dio.” Spaventoso, no? Il terzo indipendente si chiama Livio: non cito il cognome e la data di nascita, perché è ancora vivente. Un tempo fu cameriere; ora si aggira per il centro di Brescia, la mia città natale, sempre dispensando enigmatica saggezza. E’ l’uomo con più inventiva verbale che io abbia mai incontrato e certamente mi ha influenzato. Andrebbe messo a confronto con Pasquale Panella e, probabilmente, vincerebbe.

Puoi indicare tre brani, italiani o stranieri, che ti hanno influenzato particolarmente?

Bob Dylan: “Ring them bells”; Claudio Monteverdi: “Il combattimento di Tancredi e Clorinda”; Lou Reed “Street Hassle”.

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