La musica è solitudine condivisa“. Disincanto, malinconia, voglia di crescere pur rimanendo fedele a se stesso: Francesco Motta è stato il protagonista della terza serata organizzata da Goa Boa Festival ai Giardini Luzzati, in occasione dell’uscita del suo primo libro Vivere la musica: Affrontare gli ostacoli, i cattivi maestri e le folli regole del gioco. Non una semplice presentazione, non un banale firmacopie, né tantomeno un concerto in acustico: è stato un raccontarsi tra amici, in un’atmosfera intima, nonostante il sold out annunciato già nei giorni precedenti.

A salire sul palco prima dell’artista toscano è un talento genovese, Leyla El Abiri, accompagnata dalla band Banana Joe. Per gli affezionati di Goa Boa si tratta di una vecchia conoscenza: già lo scorso anno si era esibita sul palco del Festival all’Arena del Mare. Con la sua voce delicata e accogliente, le sue melodie tutt’altro che banali e di impronta anglosassone, nonostante i testi in italiano, ha accompagnato il pubblico durante l’aperitivo, regalando emozioni inaspettate e riconfermando il suo innegabile talento.

E proprio il termine talento a volte sembra riduttivo quando ci si confronta con personalità come quella di Motta. Lo hanno capito Claudio Cabona e Alessandra Rossi, i giornalisti che hanno avuto il piacere di chiacchierare con lui sul palco: di musica, principalmente, ma anche e soprattutto di sentimenti e di stati d’animo.

Nel suo libro, infatti, Motta racconta che cosa significa vivere con la musica fin da quando si è ragazzini: non ha mai pensato che sarebbe potuto essere un lavoro e non ha fatto nulla per far sì che lo diventasse, semplicemente non ha mai passato un giorno senza suonare. A casa, in saletta, per strada, in studio. Non fa differenza. L’esibizione sul palco del Teatro Ariston durante la 69esima edizione del Festival di Sanremo non è stata tanto più complicata del saggio di musica delle medie.

La ferocia delle mamme presenti in sala, a caccia dell’errore nei figli degli altri, è paragonabile alla competizione su palchi decisamente più prestigiosi. Necessariamente si arriva ai talent, che non giudica per via della mancata gavetta dei protagonisti, ma per il perfezionismo a tutti i costi imposto ai concorrenti. È l’errore quello a cui ti affezioni, nelle canzoni così come nelle persone, l’aspetto umano, l’imperfezione.

Si parla del lockdown, di quanto sia mancato il contatto con il pubblico e il poter salire sul palco, ma anche della mancanza di poter partecipare, come pubblico, ai concerti di altri artisti. “Se volevate qualcuno che vi rassicurasse, avete sbagliato persona: non vi dirò mai che andrà tutto bene”. E se il disincanto sembra evidente, allo stesso tempo il messaggio è arrivato forte e chiaro: occorre impegnarsi, ognuno nel suo, per far sì che quanto accaduto non abbia delle conseguenze irreparabili sul piano umano. La cultura, la musica, il cinema e tutte le arti possono disegnare i contorni del futuro che sarà.

Qualche canzone chitarra e voce ha intervallato le chiacchiere: Dov’è l’Italia, La fine dei vent’anni, Mi parli di te, Sei bella davvero e La nostra ultima canzone.

Ed è proprio la musica ciò che riesce a tenere insieme animi tormentati come quello di Motta: su e giù dal palco il desiderio è quello di essere felice, di sentirla come una migliore amica e non più come una madre avvolgente e soffocante. Scrivere canzoni allegre forse non sarà facile, ma approcciarsi con la giusta serenità al nuovo album sembra essere una priorità di Francesco. Proprio su questo nuovo lavoro sembra voler conservare grande riserbo, anticipando solo che saranno canzoni in italiano. Con buona pace dei curiosi.

Qualche aneddoto sul periodo con la sua band, i Criminal Jokers, sulla provincia e sulle grandi città, sull’incontro con gli amici Zen Circus e sulle persone che scegli come compagni di viaggio. Che poi, alla fine, tutto si riconduce a quello: la solitudine condivisa, le emozioni che metti nei testi, nelle musiche, che sembrano solo tue e poi diventano di tutti quelli che quelle parole e quelle melodie le ascoltano e le fanno diventare proprie, magari stravolgendone il senso. Facendone colonna sonora della propria, personalissima, esistenza.

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