Aerial Roots è il nuovo lavoro dei Piqued Jacks: riproposizione in acustico delle canzoni di Climb Like Ivy Does, la band ha deciso di sottolineare le radici folk-acustiche di molte delle proprie canzoni. Abbiamo rivolto qualche domanda alla band.
Cominciamo da una domanda ovvia: perché riproporre in versione acustica le canzoni di “Climb Like Ivy Does” con “Aerial Roots”? Da dove nasce questa scelta?
Tre parole: di necessità virtù. Durante i tour in America, per suonare il più possibile abbiamo deciso di trasformarci anche in versione acustica, non limitandoci quindi a qualche canzone ma a gran parte del repertorio. Proprio durante l’ultimo tour in molti si sono innamorati dei nostri alter-ego tranquilli (mica tanto) consigliandoci di registrare un disco. Già ci stavamo pensando perché agli acustici abbiamo dedicato sempre più attenzione, così neanche il tempo di scendere dall’aereo che già eravamo in studio.
Quali sono state le difficoltà che avete incontrato nel riproporre i vostri pezzi in versione acustica?
Sinceramente, nessuna. Anzi, un sacco di gioie (e fan) che forse altrimenti non si sarebbero nemmeno avvicinati (quando suoniamo il set elettrico infatti sudiamo molto di più).
La vostra carriera, soprattutto dal vivo, porta a pensare che abbiate un legame particolare con gli Stati Uniti. Oltre alla scelta del genere musicale, quali sono le ragioni che vi hanno portato a guardare così di frequente oltre Oceano?
Giusta osservazione! Il nostro legame con gli States, prima di diventare concreto, è nato dal fatto che siamo cresciuti ascoltanto principalmente musica in lingua inglese, trovandovi i nostri punti di riferimento. Prima di approdare oltre Oceano abbiamo inviato una quantità industriale di email in ogni dove, però l’unica con una risposta positiva è arrivata da lì. Adesso gli Stati Uniti continuano ad essere un nostro obbiettivo ed un mondo a cui guardiamo come esempio per il modo di approcciarsi professionalmente alla musica anche a livello indipendente, purtroppo poco valorizzato in Italia.
Potete raccontare la strumentazione principale che avete utilizzato per suonare in questo disco?
Ma certo che sì. I cinque strumenti principali sono anche quelli che di solito suoniamo, ovvero pianoforte, chitarra (acustica stavolta), basso (acustico pure lui), batteria e voci. Una delle parti divertenti e stimolanti è stata sperimentare un sacco di strumenti e suoni per abbellire e rifinire i pezzi. Abbiamo usato il nostro fidatissimo glockenspiel per bambini (una sorta di xilofono), la valiha (uno strumento tradizionale del Madagascar), trombe, archi, percussioni varie (tra cui il mitico triangolo), l’armonica e la fisarmonica (spesso confuse, ma sono due cose diverse!). Ultimo ma più importante, il cuore che ci mettiamo sempre.
Chi è o chi sono gli artisti indipendenti italiani che stimate di più in questo momento e perché?
Nord, Le Capre a Sonagli. Ci abbiamo suonato insieme quando ancora non si chiamavano così. Sono spariti e riapparsi con questo progetto folle, unico nel suo genere. Il loro ultimo disco è una bomba e si stanno facendo valere un sacco. Centro, Shed of Noiz. Band amica da un sacco di tempo, ultimamente un po’ silenziosa ma con grandi idee e potenzialità. Li vorremmo rivedere al loro splendore, diciamo che questa inclusione è un occhiolino gigante rivolto a loro. Ascoltateli, meritano.
Sud, Terzo Piano. Anche loro in finale ad Arezzo Wave Band, non ci siamo incontrati ma li abbiamo sentiti e abbiamo apprezzato la loro musica originale, secondo noi finalmente un indie degno di tale nome e quella che ci sembra tanta determinazione. Il tutto ovviamente secondo il nostro modestissimissimo parere.
Potete indicare tre brani, italiani o stranieri, che vi hanno influenzato particolarmente?
Volevate dire “tremila”, giusto? Difficile, ci proviamo: Amsterdam – Coldplay, Song for the Dead – Queens of the Stone Age, This Velvet Glove – Red Hot Chili Peppers.