Disponibile ovunque da oggi, 1° dicembre, il nuovo album di inediti di Postino dal titolo L’ordine delle cose da dire, via ADA Music. Dopo quattro anni di silenzio e con un’eredità consistente come quella lasciata da Latte di soia (25 milioni di stream vorranno pur dire qualcosa), Samuele Torrigiani sveste per un attimo i panni dello psichiatra, lavoro che svolge presso una struttura penitenziaria, e riprende la chitarra.
Quando si torna a un luogo che si è lasciato, ci si sente in dovere di annunciare il proprio arrivo, come quando si fa ingresso nella stanza con un colpetto di tosse. E si spera che ci accolga quella familiarità assunta attraverso corrispondenze, le stesse che si spera di ritrovare cresciute, invecchiate, disilluse, con la barba di due giorni e le bollette da pagare.
Quattro anni di silenzio sono molti colpetti di tosse, ma sono anni in cui il silenzio è stato solo parola inespressa, e non per questo parola non levigata, lavorata, sentita. Le canzoni di questo album vi troveranno diversi, e probabilmente sarete voi a trovare diverse loro, rispetto a quello che erano, rispetto a quello che ero io. Capirete che il sound elettronico è rimasto in “quella scatola”, ormai piccola per essere d’aiuto al trasloco in un bilocale, per fare spazio ad archi, fiati e chitarre elettriche. Ma probabilmente ci ritroveremo lo stesso, seppur diversi, nella sincerità di un brano
Postino traccia per traccia
Le cose non dette e quelle che spezzano il fiato si collocano proprio all’inizio del disco: voce e pianoforte, Postino ha accumulato per anni Le cose da dire. Le sensazioni iniziali sono quelle che si è lasciato dietro, tra dolori raccontati con dolcezza e i numerosi eventi negativi che la vita ci riserva.
Persefone apre con un recitato, in una sorta di confronto con il passato, sfogliando ipotesi che non si realizzeranno. Una classica ballad nostalgica con elementi semplici e un paio di tracce lasciate dalla chitarra elettrica. “Alleggerivi il mondo e mi addolcivi il suolo/perché ad appesantirmi son bravissimo da solo“.
E la chitarra fa un ingresso trionfale anche in A trent’anni, meditazione movimentata sulla fine dei vent’anni e su tutti i passaggi di stato che l’età porta con sé. Tra libretti d’istruzioni smarriti e persone che si smontano come Lego, il brano accoglie un ritmo consistente, e anche un’esigenza di confessarsi: “e io che per colpa mia continuo a stare male/senza niente di reale che mi faccia stare male“.
Dimmi perché iniziare ha un sound più complessivo, quasi da band: ritornano i gatti, il synth e un minimo di vitalità in una canzone che comunque racconta che il prossimo rapporto andrà in vacca, quindi due domande prima di iniziare uno se le pone anche. “Così me ne sbatto/me ne vado in letargo/perché la gente mi sta sul cazzo“: dai Postino, cerca di parlare chiaro, basta con tutte queste metafore.
Un respiro concitato dà il via ad Atarassia: la celebrazione del distacco e dell’impermeabilità dalle passioni, che per i filosofi greci (ma anche per Battiato) era un valore da perseguire, qui diventa un disagio: “in questo limbo sentimentale, mentale, sociale, innaturale che è/la mia atarassia“. Un brano un po’ meno da Postino, un po’ più da psichiatra, se vogliamo usare il bilancino. Oppure un passo avanti nella scrittura, anche musicale, se vogliamo vederla in prospettiva.
La “densa rete neurale che decide cosa farci provare“, decide anche di far viaggiare il cantautore in bilico tra le spiegazioni e le passioni: ne esce La deriva, un pezzo che balla al suono delle trombe e ragiona in profondità, curioso e stravagante, ma in senso positivo.
Le pennate di chitarra di Per non morire aprono un discorso che parla ancora di latte (ma forse non di soia): il cucchiaino pesca sul fondo, mentre torna la tromba, tra occhi stanchi e lacrime.
Il violino suona Nel buio, tra le mille domande astruse, con l’ansia che sale: il pezzo descrive una sorta di attacco di panico, scandito dal beat profondo, mentre si cerca il senso delle cose e delle canzoni. In attesa di ritrovarci e di riconoscerci, il finale del brano è particolarmente vibrante.
Raccontando disagi nuovi e antichi
Forse anche questo disco nuovo di Postino non fa altro che confermare che l’indie è morto e che gli artisti che lo hanno animato si stanno trasformando in qualcos’altro, nello specifico in cantautori. Ci sono, in effetti, ballad che fanno pensare al mondo di Blu e di Ambra era nuda, ma è abbastanza evidente che la spontaneità e la semplicità del 2018 si è smarrita ed è probabilmente persa per sempre.
Un male? Boh. E’ un male il fatto che non si rimanga tutti in quell’età che sta tra i venti e i trenta, felici e immuni alle malattie, e fin qui ok. Ma siccome la vita è fatta così, bisogna accettare, come ha fatto Postino, ma anche Calcutta, e come prima o poi dovrà fare perfino Gazzelle, che le cose non rimangono sempre le stesse e che bisogna scrivere canzoni diverse e più mature.
E’ esattamente quello che ha fatto, dal suo “esilio”, Postino, e ci è riuscito decisamente bene: svestiti i panni del giovane preda di disagi e dipendenze varie, ha vestito quelli del trentenne che in qualche modo è vittima degli stessi disagi ma li vive e li scrive con consapevolezze e domande diverse.
Questa consapevolezza si riflette anche sul piano musicale, come il cantautore toscano sottolinea nella sua dichiarazione introduttiva: l’elettronica è stata un po’ accantonata, anche se non del tutto, per fare spazio a strumenti “veri” che conferiscono una maggiore personalità alle canzoni di un disco forse meno immediato, sicuramente non meno valido e destinato ad approfondimenti ulteriori.