Si intitola Ghost il primo full length dei Quiver with Joy, nuova forma di un sodalizio già sperimentato che vede fianco a fianco Matteo Mancini e Giulio Catarinelli. I due fondano la band con altri musicisti nel 2013 e si mettono al lavoro in ambiente indie, senza troppa passione per le distinzioni di genere.
Quiver with Joy traccia per traccia
Il disco si apre con il pianoforte ritmato di Tonight, che ha un cantato particolarmente dolce, ma che inizia a inserire nell’ascoltatore dubbi e inquietudini che dureranno per tutto l’arco dell’album.
Il brano più pop dell’album, benché in senso relativo, è Feel Alright, che ha una struttura molto ben definita e un battito ritmato e chiaro.
Ghost, la title track, si muove su piani notturni, mettendo la voce in evidenza, con qualche accento buckleyiano (il figlio, non il padre) e qualche coro vagamente minaccioso. Landscape n. 1 è intermezzo strumentale che conserva tracce d’inquietudine avvitate intorno a un giro di chitarra.
Ride my bed agisce in modo morbido, con qualcosa dell’indie rock di marca Libertines/Babyshambles, mentre Naked in the metro, con i suoi loop e le sue influenze vintage porta in città diverse e panorami diversi, non estranei allo stile di certe soundtrack.
Eterea e vaporosa, Jenny Dolly procede lenta per il proprio cammino, riportando invece alla mente certi antichi Prefab Sprout (The Venus of the Soup Kitchen, o cose così). Marziale, ma con molto di fantasmatico, il secondo intermezzo strumentale Landscape n. 2.
Fasi diverse quelle che attraversa Cross the River, capace anche di grandissima dolcezza, prima che il finale vada in acido e diventi aggressivo e insistente. Si chiude con The Fall (thougths), tra chitarra e tastiere per ammorbidire ulteriormente il clima.
Disco singolare e con aspetti originali, l’album dei Quiver with Joy ha vocazioni internazionali ma non per forzatura: suono e materia del disco portano verso idee non sempre e non per forza italiane. Suono, materia e sostanza di una band che merita approfondimenti anche futuri.