Si chiama Cervino l’ultimo disco di Caso, Andrea Casali, che insieme a una band composta da Riccardo Zamboni alla chitarra, Gregorio Conti al basso e Stefano Zenoni alla batteria ha pubblicato un disco di svolta e di scoperta, per certi versi. Lo abbiamo intervistato.

Questo album rappresenta una svolta dal punto di vista soprattutto sonoro per te: vorrei sapere come è maturata questa scelta.

Principalmente volevo suonare con altre persone, condividere con loro sala prove e palco. L’obbiettivo iniziale era fare una decina di date elettriche in cui proporre i pezzi dell’album precedente con anche basso e batteria. Ci siamo trovati bene da subito ed è stato un passaggio naturale proporre in fase di arrangiamento anche le canzoni nuove che stavo scrivendo.

Quando a tutti è parso chiaro che il meccanismo funzionava, io molto egoisticamente ho capito che era l’occasione giusta per fare un disco che suonasse diverso dalle mie cose passate. Mi piaceva l’idea di svincolarmi dai suoni acustici, abbiamo trovato dei riferimenti comuni, Stephen Malkmus e Weakerthans su tutti, e ci siamo messi al lavoro. Con Riccardo, che suona l’altra chitarra e con me ha prodotto il disco, ho scelto lo studio più adatto a interpretare il suono che avevamo in mente (La Sauna di Varese). Siamo tutti molto soddisfatti.

Com’è stato lavorare in squadra a questo disco, visto che immagino tu sia abituato a un po’ più di solitudine?

Mi sono fidato dell’esperienza e del gusto dei singoli. Per me non è stato facile concedere spazi, non ne ero abituato; per loro credo non sia stato semplice accettare di esprimersi entro certi paletti. Volevo che la canzone finita soddisfacesse e divertisse tutta la band senza stravolgere la mia idea iniziale: volevo che mi somigliasse molto.

A volte l’ho presa per il collo e strattonata più verso di me, mi sono impuntato, con determinazione. Altre volte ho mollato la presa perché le soluzioni che mi venivano proposte da subito calzavano benissimo. Ho trovato le persone giuste, tecnicamente più preparate di me, con un orecchio migliore e forse anche più predisposte di me a sincronizzare gli umori di tutti. Cervino è un disco mio che deve tantissimo a loro tre.

Che cosa ti ha colpito così tanto nell’impresa di Bonatti da ispirare parti di “Atletica leggera”, il titolo dell’album e forse lo spirito del disco?

Ogni volta che faccio un disco penso sempre che sia l’ultimo e l’ascesa al Cervino, intrapresa alla mia stessa età, è stata per Bonatti l’ultima scalata “estrema”, la più importante forse, di sicuro quella che ha segnato maggiormente il suo percorso. L’alpinismo stava cambiando, si stava evolvendo e lui decise di continuare non “a certe condizioni”, ma soltanto alle sue.

Trasporta se possibile tutto in musica e con le dovute proporzioni; ecco: questo è quello che penso io al momento. Mi va di aggiungere che c’è un bellissimo video (lo si trova facilmente anche in rete) delle sue parole appena sceso dalla vetta; dopo aver compiuto l’impresa della vita, avere fatto la Storia, la prima cosa che fa è scusarsi con l’intervistatore per essere costretto a tenere gli occhiali a causa del forte sole preso in vetta. Vorrei che anche questo fosse traducibile in musica.

Caso: il tonfo del pallone e gli scambi di sensazioni

Come nasce “Denti di ferro”?

Ero partito dal tonfo che fa il pallone contro la saracinesca di un garage che è un rumore che molti di noi potrebbero riconoscere facilmente anche adesso. Sono partito da lì e mi sono tornati un po’ di ricordi d’infanzia: i pantaloni di mio cugino che venivano riciclati in famiglia per risparmiare sui vestiti, il flauto dolce suonato alle elementari, ancora il pallone incastrato sotto le macchine in cortile. Alla fine l’immagine del garage nemmeno l’ho messa; al posto di quella ho infilato i pastelli perché ho trovato in casa una scatola ed erano tutti nuovi tranne uno consumato.

Puoi raccontare la strumentazione principale che hai utilizzato per suonare in questo disco?

Potrei farti un elenco di marche e modelli ma in fondo non sono molto diversi da quelli che si trovano spesso sui palchi e a dirla tutta forse farei anche confusione. Quello che ci stimolava era registrare quasi tutto in presa diretta: tutti contemporaneamente nella stessa stanza per provare a interpretare al meglio la canzone. Ci siamo affidati ad Andrea Cajelli per la sua esperienza e perché come noi convinto che il suono della batteria faccia sempre almeno metà della resa sonora di un album.

Ci è piaciuta la sua stanza principale, molto grande e non trattata (niente pannelli, niente legno), e ci ha subito stuzzicato l’idea di poter registrare lì la batteria per poi giocare con la presenza del suono “vero”, quello ambientale, in fase di missaggio. Per la voce Andrea mi ha montato un microfono Ribera che è un microfono artigianale italiano ispirato a vecchi modelli Telefunken e Neumann: non ho mai sentito la mia voce così ben riprodotta.

Chi è l’artista indipendente italiano che stimi di più in questo momento e perché?

Ho sulla scrivania il nuovo disco di Phill Reynolds, non l’ho ancora ascoltato in tranquillità però buona parte dei pezzi li conosco già perché ci siamo incrociati spesso negli ultimi anni e a vicenda supportati. Non si è mai trattato di quel supporto tra amici del tipo “è bello perché l’hai fatto tu”, sui reciproci lavori abbiamo sempre avuto un confronto molto trasparente, a volte anche critico, andando in profondità alle canzoni, ai testi e alle scelte produttive. Un confronto spesso anche al di là dei dischi, uno scambio di sensazioni e umori legati al fare musica, sia scrivere canzoni che proporle su un palco. È una cosa che mi riesce con pochi e con lui invece avviene molto naturalmente.

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