Recensione: Gian Luca Mondo, “Malamore”
A un anno dall’uscita del precedente Petali (qui la recensione) Gian Luca Mondo torna a pubblicare, con Malamore. Scritto quasi interamente di getto e registrato in tre-quattro giorni con la produzione dello stesso Carlo Marrone che aveva lavorato a “Petali”, secondo l’autore si tratta di un disco pervaso dallo spirito del punk.
Le canzoni sono brevi, spesso elettriche, registrate per lo più in presa diretta, con arrangiamenti essenziali. La musica è, di base, blues; i testi, ricchi di ferite.
Gian Luca Mondo traccia per traccia
Si parte con gli incroci vocali dell’introduzione di Malamore sta con te, un pezzo dolce e acido insieme, che coniuga il pianoforte e una chitarra elettrica pesantemente inquieta, duplicata da percussioni nervose. Si naviga in tranquille acque blues con La canzone del baio, con ambientazione western e un cantato country.
Molta elettricità e un certo grado di poesia nel Van Gogh Blues, ancora una volta giocata sui contrasti tra aspro e dolce. Molto più ironica Blues del doppiopetto, che abbandona l’elettricità del pezzo precedente per introdurre in atmosfere un po’ Sam Spade, un po’ Bukowski.
Riconduce invece al cantautorato italiano nobile e sghembo (citofonare Capossela e un po’ Conte) Soltanto per pazzi, che però affonda la materia in situazioni elettriche. Il drumming si fa evidente in Ringraziamento, primo singolo, piuttosto veeemente ma anche molto minimalista, con testo e voce in primo piano.
Anticanzone è disegnata con tratti e scarabocchi sonori, ma Lamento di Berzano, sempre su tappeto di blues morbido, la supera per stramberie e ironie disperate. Il senso di disperazione è esteso da Lettera Cattiva, essenziale e acustica, avviluppata attorno a righe molto dolorose, ma anche in questo caso con qualche tratto paradossale e qualche mezzo sorriso. C’è il pianoforte in VagaMondo, ultima canzone del disco, che di nuovo richiama alla memoria la tradizione del cantautorato italiano nobile, ma balordo.
Come già in Petali, Gian Luca Mondo confeziona un disco in cui quasi ogni tratto lascia un segno, ora contrassegnato dall’ironia, ora dalla collera, ora da qualche dito di alcol, ora dalla poesia. Magari non tutto nel disco è fatto per restare, ma l’impressione complessiva lasciata dall’album lascia l’ascoltatore più ricco, e un po’ più triste.