Recensione: Volvér, “Octopus”

volvérQuando ti fai disegnare la cover dal character designer dei Gormiti, vuol dire che hai intenzioni bellicose: così è successo ai Volvér, rock band esordiente dagli spiccati caratteri analogici e con qualche propensione vintage che va dal blues alla psichedelia.

Il quartetto, nato a marzo 2015, prende il nome da un film di Almodovar e pubblica Octopus, otto brani (più ghost track) che tradiscono, oltre a una certa fascinazione per gli anni ’60 e ’70, anche una più che discreta voglia di farsi trasportare dagli strumenti.

Volvér traccia per traccia

Si parte con Brother, pezzo rock con qualche idea pop, ragionato e moderato. Nella seconda parte emergono istinti di altro tipo con una lunga coda strumentale. La controparte Sister si muove su linee ancora una volta rock (quasi AOR, qui e là) con pianoforte, drumming articolato e la chitarra che arriva a dare una pettinata al suono.

Si esce dalla linea familiare con Deepred, molto più decisa e acida dei due episodi precedenti. Anche qui c’è spazio di divertimento nel finale per i musicisti, che si scontrano sul terreno della session. Si passa poi a Lies, con intro morbida che lascia presto spazio a un suono più voluminoso, benché sempre a ritmi controllati e piuttosto compassati.

Si torna a modi rock-pop con Need You, mentre Walk my words indugia su umori piuttosto malinconici. Si alzano i giri del motore con Things I Need, in cui le digressioni strumentali tornano al centro del brano. Certo non quanto in Jackuait, curioso omaggio al più o meno omonimo, con caratteristiche di blues molto acido e ricco di riverbero. Breve e acustica la traccia fantasma Tarifa che chiude il disco.

L’esordio dei Volvér è positivo, il talento e le abilità strumentali tutte al proprio posto. Forse sarebbe stato lecito aspettarsi qualche scintilla in più qui e là e qualche cambio di schema più coraggioso, ma nel complesso il debutto va guardato in maniera ottimista anche per il futuro.

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