Con l’umile ma malcelata ambizione di fornire ai lettori di TRAKS qualcosa di “diverso”, che si possa leggere accanto, insieme, sopra e sotto la musica che accompagna le nostre giornate, questo agosto abbiamo deciso di proporre o riproporre alcuni articoli monografici che abbiamo scritto in passato, per lo più su altre testate, e che non volevamo andassero persi. Letture estive, ma anche per ogni stagione

Chi l’ha detto che la fotografia immortala la “realtà”? O peggio, che immortala la “verità”?

Poniamo il caso di Eduardo Martins, sedicente fotografo di guerra che rubacchiava gli scatti di altri fotografi (“veri”) e che ha ingannato le redazioni di mezzo mondo con particolari tragici di guerre e di Paesi che non aveva mai nemmeno visitato. Che cosa c’è di vero e che cosa è falso?

Lasciamo la domanda in sospeso. E parliamo di uno che si è inventato da solo. Il suo nome è Robert Capa, e non è mai esistito. Eppure ha vissuto la vita di Endre Ernő Friedmann, ungherese nato a Budapest il 22 ottobre del 1913 e morto a Thai Bin il 25 maggio 1954. Friedmann non si è limitato a usare uno pseudonimo accattivante per vendere meglio gli scatti di guerra che faceva.

Si è inventato, con l’aiuto della compagna Gerda Taro, un fantomatico celebre fotografo americano giunto a Parigi per lavorare in Europa. C’è un progetto dietro allo pseudonimo: Robert Capa fu scelto perché in assonanza con il nome del regista Frank Capra.

Grazie all’espediente la coppia comincia ad acquistare credibilità e i periodici sono ben lieti di pubblicare le fotografie della guerra civile spagnola, quelle stesse che, firmate Endre Ernő Friedmann, prima non prendevano neanche in considerazione. Le prime foto sono anzi marchiate “Capa-Taro”, e quindi è indistinguibile sapere chi ha scattato cosa, dei due. Soltanto in seguito Friedmann diventa davvero Robert Capa.

Friedmann non voleva nemmeno fare il fotografo: pensava di essere uno scrittore. Poi inizia a lavorare da Dephot, prestigioso studio fotografico di Berlino. Qui scopre, anche grazie ai suggerimenti del direttore Simon Guttam, che con una Leica in mano poteva ottenere risultati interessanti. Soltanto che per un ebreo ungherese comunista la Berlino degli anni Trenta non è proprio il posto migliore dove stare. Fotografa le lezioni di Trotskij in Danimarca, ma dopo l’incendio del Reichstag inizia un peregrinare che sostanzialmente non terminerà mai.

È a Vienna, poi torna a Budapest, quindi a Parigi dove conosce Gerda Taro, con la quale imbastisce la truffa Robert Capa. Poi la Spagna nel ’36, a documentare la guerra civile, per colpa della quale la Taro perde la vita, schiacciata dalle manovre incaute di un carro armato “amico”.

Di questo periodo è anche la foto più celebre di Capa, sicuramente tra gli scatti più famosi della storia: quella del miliziano colpito a morte. Simbolo immortale della mortalità della guerra, eroe tragico e misterioso nella propria anonimità, scatto perfetto nel cogliere il momento esatto del sopraggiungere della morte. Ma è un falso.

O almeno: si è dibattuto per anni sui particolari e l’autenticità della foto: lo storico della fotografia Ando Gilardi contesta i dettagli (foto scattata dalla Rolleiflex medio formato che usava la Taro, non dalle più pratiche Leica o Contax che usava Capa; errori di collocazione; nessun morto nella battaglia che Capa sosteneva di aver fotografato). Addirittura si è detto che il miliziano morto non fosse affatto un miliziano repubblicano, ma un anarchico, morto fra l’altro sotto un albero e non nel modo tragico dipinto dallo scatto, che quindi potrebbe perfino essere una sorta di “posato”.

Capa si difenderà dicendo che in realtà si trovava nel mezzo di una trincea in Andalusia con soldati repubblicani dotati di vecchi fucili che cercavano di attaccare una mitragliatrice fascista ma morivano come mosche. Così mise la macchina fotografica sulla propria testa e scattò senza inquadrare, certo che comunque qualcosa di buono ne sarebbe uscito.

Si diceva che fosse la miglior foto che avessi mai scattato, e io non l’avevo nemmeno inquadrata nel mirino perché avevo la macchina fotografica sopra la testa

Conta qualcosa? Ha veramente importanza se l’uomo nella foto è repubblicano, anarchico, morto in Andalusia, in Estremadura, in Indocina? Leva qualcosa del dramma ritratto perfino se lo scatto è posato? Perché diciamocelo, la fotografia non è la realtà. Oggi si parla di Photoshop, dei ritocchi eccessivi, della realtà travisata dalle riviste di moda e di glamour. Ma non ci si rende conto che il compito della fotografia non è rappresentare il reale. È rappresentare lo sguardo del fotografo. Meglio ancora, è “simboleggiare”.

La modella anoressica ma perfetta che campeggia dai manifesti delle città, così come il miliziano morto nella campagna andalusa, non sono “se stessi”: sono il simbolo di tutto ciò che rappresentano in quel momento esatto. Sono il fermo immagine di un’idea: l’idea del fotografo, della rivista, di chi ha commissionato e pagato la campagna, dei molti o pochi che ci lavoreranno sopra fino alla pubblicazione.

Perfino un selfie che ci scattiamo di fronte a un piatto di spaghetti non è “realtà”: lo stato d’animo vero, il pensiero reale, il sapore degli spaghetti (magari osceno, ma con un look impeccabile) resteranno sempre fuori dallo scatto.

Robert Capa/Endre Friedmann divenne celebre grazie a quella foto e a mille altre che scattò durante momenti fondamentali della storia del Novecento: fu testimone della guerra sino-giapponese, fotografò i bombardamenti a Londra, gli scontri in Nordafrica e in Italia (si paracadutò in Sicilia nel ’43 per documentare l’arrivo degli Alleati, rimanendo appeso a un albero una notte intera), lo sbarco in Normandia, nel pieno della prima ondata dell’assalto, la liberazione di Parigi. E poi ancora la guerra arabo-israeliana del ’48, la nascita d’Israele e la prima guerra d’Indocina.

“Se le tue foto non sono buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino” è la sua frase più celebre. Ne fece una regola di vita, e anche di morte, visto che saltò su una mina indocinese nel ’54. Ma fece in tempo a vivere una vita notevole anche lontano dai fronti di guerra: nel ’47 fu a New York per fondare, insieme a Henri Cartier-Bresson, David “Chim” Seymour e George Rodger e William Vandivert la Magnum, una delle più celebri e fondamentali agenzie fotografiche della storia.

E nel tempo libero ebbe modo anche di vivere un’intensa storia sentimentale di due anni con Ingrid Bergman, nonché di stringere amicizie con personaggi notevoli come lo scrittore John Steinbeck.

Friedmann ebbe una vita “vera” e diventò del tutto coerente con il personaggio Robert Capa: fu lui a conferire realtà, con la propria passione, il coraggio e gli occhi di un uomo coinvolto dall’azione (dalla realtà?), a un’invenzione, a una piccola truffa. Chissà: se il finto fotografo brasiliano Martins avesse avuto il coraggio del truffatore, anziché il misero istinto del ladro, sarebbe diventato un piccolo Capa, anziché un piccolo uomo.

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