E’ uscito venerdì 17 maggio, pubblicato da La Cùpa/Warner Music, Ballate per uomini e bestie, il nuovo progetto discografico di Vinicio Capossela, l’undicesimo lavoro in studio.
Presentato dall’autore come “Un cantico per tutte le creature, per la molteplicità, per la frattura tra le specie e tra uomo e natura”, il nuovo disco è stato anticipato dall’uscita del brano Il Povero Cristo accompagnato da un videoclip scritto da Vinicio Capossela e Miriam Rizzo per la regia di Daniele Ciprì che firma anche la fotografia. Il video è stato girato a Riace e gli interpreti sono Enrique Iatzoqui, il celebre Gesù de Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, Marcello Fonte, Palma d’oro a Cannes nel 2018 per Dogman e Rossella Brescia.
“Negli ultimi cento anni – scrive Capossela – il pianeta ha subìto un’accelerazione che cancella la storia precedente. Un cambiamento strutturale che si avvia all’irreversibilità. Il senso del sacro, di manifestazione del sacro nella natura, è scomparso. La religione si è fatta presupposto di conflitto. Gli studiosi definiscono questa era Antropocene, a sottolineare quanto l’uomo abbia modificato la sostanza stessa del pianeta e dei suoi abitanti”.
Vinicio Capossela traccia per traccia
Si parte dall’inizio, ma veramente dall’inizio: dalla prima rappresentazione artistica dell’umanità. Uro è intrisa di preistoria, visto che si incarica di mettere in musica, e in forma drammatica, le tenebre da cui l’uomo e i suoi antenati uscirono per dipingere i graffiti della grotta di Lascaux, diciassettemila anni fa. Il cantautore sfrutta la musicalità gutturale dell’animale del titolo per farne quasi un oggetto contundente da pronunciare, punteggiando il brano.
La prima ballata, che è anche una ballad, è Il povero Cristo, che per suoni fa pensare alla linea americana Guthrie-Dylan-Springsteen (di Nebraska o The Ghost of Tom Joad), o comunque a tutte le radici folk. Il povero Cristo della canzone è sia quello sulla croce sia i molti poveri cristi che si incontrano ogni giorno. “Dovrà sempre mentire/a chi gli sta vicino/perché ci ha dentro il cuore/più stanze di un casino”.
Caposseliana, ma anche un po’ waitsiana, ecco La peste, che parla sì di malattia, ma di quella che si diffonde nella Rete, tra fake news e persecuzioni ad personam, in un pezzo non a caso dedicato a Tiziana Cantone, suicida dopo essere risultata vittima di un sex game e del voyeurismo generalizzato. Più sintetica dell’abituale, la canzone si snoda fra suoni orientali, suggestioni brechtiane, giochi di parole: “Ein, Zwei, Like/Let’s tweet again”.
Tocca poi alla Danza macabra, un classico dell’iconografia della Controriforma, qui resa come marcia funebre in due movimenti. Archi e fiati punteggiano un brano che nella prima parte procede come un funerale (ma con echi alla Tim Burton) e nella seconda come celebrazione folk, celtica e festante.
Dal Barocco della “Danza”, eccoci al Rinascimento con l’introduzione de Il Testamento del porco, poi però soggetta a tutta una varietà di ritmi con forti radici popolari e danzerecce. Un testo che sa di Rabelais, per un altro canto che tratta pur sempre di morte, ma in modo non proprio tristissimo. Si chiude, appropriatamente, grufolando.
Ballata del carcere di Reading cambia completamente l’atmosfera: qui il protagonista è Oscar Wilde, ma non quello degli aforismi, dell’opulenza di Salomé, del rimirarsi in specchi e ritratti. Incarcerato, il poeta riflette sulla pena di morte. “Ognuno uccide quel che ama/ma non ognuno per questo muore”: Capossela affronta il classico quasi con cautela, attorniandosi di un’orchestrazione larga e capace di abbracciare.
Si riprende a danzare, ed è sostanzialmente un Ballo di san Vito, con Nuove tentazioni di sant’Antonio, storia di un viaggio infernale adorna di suoni arabeggianti. Ma le immagini della canzone utilizzano suggestioni antiche per parlare del nucleare e del deserto che c’è in ogni uomo, “nella notte che ci fa uguali”.
Si ritorna a una certa intimità appassionata ma anche fiabesca con La belle dame sans merci: la disinvoltura e la “facilità” con cui Capossela approccia questo tipo di canzoni di sapore antico (qui l’origine è una poesia di Keats) che si strozzerebbero in gola a gran parte dei contemporanei non cessa di stupire.
E da Keats si passa a Francesco d’Assisi: Perfetta letizia è un quasi inevitabile collegamento al Cantico delle creature, pezzo che si poggia lieve a livello musicale, benché il concetto di “letizia” espresso nel canto del Poverello sembri piuttosto controverso (in sostanza secondo lui la felicità sta nel sopportare pazientemente di essere riempiti di mazzate. E poi dicono che il masochismo è invenzione recente).
La vecchia favola de I musicanti di Brema assume toni jazz-blues, in una marcia animalesca: il brano che racconta dei quattro animali che si salvano la vita per mezzo della musica termina in un tripudio finale.
Più depressa ma anche piuttosto ironica e blues Le Loup Garou (titolo che fa pensare a un antico disco e canzone di Willy Deville, con cui però non condivide altro), che parla di bile nera e politica: il trasformismo del lupo mannaro si affianca a quello parlamentare, tra desideri di carne cruda e suoni (insolitamente) elettrici. Il finale non è proprio di quelli lieti, ma l’ultima cavalcata del lupo merita di essere ascoltata e ricordata.
Un pianoforte molto dolce accompagna un’altra storia animale triste: La giraffa di Imola è il racconto (vero) di questa bestia dal collo lungo scappata dal circo e corsa a perdifiato per le strade della città emiliana: “Correva, correva e tutto intorno pareva volgare”. Straniera in un mondo che non la comprende, in nessun senso della parola, diventa simbolo di bellezza e libertà. E perciò è destinata a una fine precoce.
Lunga e dolorosa anche la storia dell’orso: ex re della foresta, il grande peloso è protagonista in Di città in città (…e porta l’orso), altro tema musicale abbastanza cinematografico e burtoniano. Ma nel raccontare il ballo triste del povero animale si sfiorano anche temi più alti: “Questa è la nostra stagione, un dio di natura fatto buffone/Se un Dio non c’è più/ecco che dio sarò io”: gli echi di Frankenstein e del Golem che si avvertono nei suoni del pezzo sono tutto fuorché casuali.
Si chiude con lentezza: ecco La lumaca, avvolgente e orchestrale, costruisce la propria tana su poche note di piano, proseguendo con costanza e determinazione fino al termine.
Ora, è ovvio che questo sia un disco notevole. E del resto da Vinicio Capossela non ti aspetti niente di meno: si è guadagnato il privilegio di prendersi il tempo che gli serve, i collaboratori che gli servono, la libertà compositiva ed espressiva che ritiene utile.
Ma la posizione raggiunta può anche consentire di sedersi e ammirarsi, di smettere di cambiare, di accontentarsi. Solo che Vinicio non funziona così: ha lavorato anni a questi disco, ma il tempo si avverte principalmente nei testi, pensati e cesellati. Invece nei suoni si avverte un’inedita ondata di freschezza quasi pop (absit iniuria verbis), anche quando ci si addentra in labirinti rinascimentali.
E poi c’è quel quid che soltanto Capossela ha: se ne parlava anche poco sopra, ma non sono tantissimi che possono mettere in musica Keats (o Wilde, o altri geni massimi) con una certa qual leggerezza, senza avvertire il peso che ti spezza la schiena, ma anche con una credibilità innegabile.
La mescolanza tra alto e basso, tra popolare ed elevato, assume qui dimensioni diverse, si addentra in ricerche ulteriori, si espande in varie direzioni senza però mai perdere di vista le storie da narrare, con cura, con tratti delicati, affrescando più che cantando. La rincorsa alla bellezza può proseguire senza indugio.