1999 – un nuovo progetto nato nel segno di “Matrix”

1999

Un progetto misterioso, dal titolo 1999 di cui si conosce poco o niente. Un nuovo singolo dal titolo IN. Influenze che vanno da suggestioni e paesaggi industriali, come anche da ambienti naturali. Un viaggio tra il Rif marocchino, l’Andalusia e le montagne del Tibet. Chi sia 1999 per adesso non è importante. Un nuovo nome che si impone nella scena elettronica e che non vediamo l’ora di scoprire meglio. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con questo misterioso personaggio.

Perché 1999? E’ stato un anno particolarmente significativo per te?

Nel 1999 è uscito Matrix. Da quel momento credo sia cambiata una visione, nel cinema sicuramente, ma anche nel mondo. È stato un anno particolarmente significativo perché ho sentito la necessità di dirmi che cosa volevo fare di me. E ho scelto la musica. La direzione musicale non mi è mai interessata, penso che se qualcuno si cristallizza in una forma è già morto.

Ma 1999 è stato l’anno in cui volevo anche superarmi, per cui mi sono buttato nel buio pesto della ricerca. Ho cercato di scrollarmi di dosso quello che fino a quel momento avevo imparato e che mi faceva sentire sicuro, che ritenevo importante per me e l’ho lasciato su un comodino.

Ho abbandonato J.M.W. Turner, Rimbaud, Verlaine, Mallarmé, gli Scapigliati, i crepuscolari, Apollinaire. Ho preso in mano per la prima volta Urlo e Kaddish di Ginsberg e Corso e Ferlinghetti. Per la prima volta ho visto qualcosa su Gina Pane e sulla body art, ho trovato un libro che parlava di Joseph Beuys. Il passato si frantumava, si polverizzava. Si aprivano dei portoni immensi e le mattonelle dei corridoi suonavano le note dei Fluxus, dei Ruins, di Cage, dei Pan sonic, dei Matmos, di Mannerfelt, di Aphex Twin, ecc.

Chi fa parte della scena elettronica italiana? Requisiti per farne parte?

Qual è il requisito di un pittore? La tecnica? Non credo.

E di un poeta? Chi fa parte oggi della poesia italiana? E perché?

L’industria poi è un’altra cosa e si muove con i canoni propri dell’industria, ma non ha a che fare necessariamente con la musica. Può dare un supporto notevole quando riesce a vedere, o può uccidere in maniera determinante qualcosa quando ne forza la visione.

Vale la logica del “facciamo tantissimi singoli” anche per l’elettronica? Funziona?

Sinceramente non me ne curo tanto. Mi piace avere i miei tempi di scrittura e di uscita. Non credo ci siano ricette giuste che riguardino le uscite. Al momento, per me è così perché è così che la sto vivendo, brano per brano. Ci sarà un momento in cui prevarrà una visione complessiva più matura e lì per me sarà il momento di dire qualcosa con un disco.

Esistono altre band o artisti che hanno come nome un numero?

Sicuramente ce ne saranno.

Descrivi il tuo progetto con il nome di tre alcolici, e ce li spieghi?

Il vino, prima di tutto. Senza di quello non andrei da nessuna parte. Penso sia una delle cose in cui spendo più soldi. Mi piace entrarci dentro, come nei paesaggi sonori che catturo per strada e che fanno da sfondo ai miei brani. Il vino si avvicina ai colori e ai sapori della mia musica.

Il gin tonic parte dai sapori e dagli odori della mia musica e si eleva a un gradino superiore. Mi prende il cervello e ne tocca le cellule, come una carezza al mento di un gatto. Il gin è il resample che faccio sui miei suoni fino a trasformarli e reinserirli in un tessuto musicale. Il resample è la body art del suono.

Poi c’è il Negroni. Il Negroni, che non è assolutamente semplice da realizzare, nonostante tanti barman si spaccino per ottimi fautori di negroni, ecco il negroni è buona parte della ritmica, soprattutto quella che mi piace distorcere. Il Negroni è il medium con un altro mondo. Per tutto il resto c’è altro.

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Signor Uffa

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