Con l’umile ma malcelata ambizione di fornire ai lettori di TRAKS qualcosa di “diverso”, che si possa leggere accanto, insieme, sopra e sotto la musica che accompagna le nostre giornate, questo agosto abbiamo deciso di proporre o riproporre alcuni articoli monografici che abbiamo scritto in passato, per lo più su altre testate, e che non volevamo andassero persi. Letture estive, ma anche per ogni stagione.
Da qualche anno a questa parte, e precisamente dal 1982, che è anche l’anno della sua morte, il cinema e la tv sembrano essersi accorti del potenziale che hanno le storie di Philip K. Dick. In vita era considerato soprattutto uno svitato e uno scrittore “di genere”, cioè di fantascienza. Soprattutto da giovane, come racconta Emmanuel Carrère nella sua biografia, ne soffrì moltissimo.
Invece oggi è assurto a una sorta di universalità per cui chi vuole fare un film che abbia un fondo filosofico, anche se in superficie si occupa di androidi, alieni o altre dimensioni, come prima idea pensa di rubacchiare qualcosa dagli scritti di Dick.
Il primo fu il Blade Runner di Ridley Scott, ovviamente. Poi ci si è messo Schwarzenegger con il suo Total Recall. E poi tanti altri, da Cronenberg al connubio Cruise/Spielberg di Minority Report. Fino al più recente seguito di Blade Runner e fino alle serie tv tratte dai suoi libri.
Certo, le sue trovate hanno fatto la fortuna di mezza Hollywood. Ma sarebbe bello se ogni tanto qualcuno provasse a rendere quel senso di radio a transistor, di vetri appannati, di sporco per terra che i suoi libri trasmettono.
Invece spesso si tende a trattarlo come un Asimov qualsiasi: robot, trovate tecnologiche, idee futuribili. Si prenda a esempio il caso malriuscito che è stata la serie tratta da Minority Report, dove il colpo di genio dei precog, i veggenti isolati dal mondo che sventano i crimini prima che vengano commessi è trasformato in una sorta di spettacolo da baraccone.
Tutta roba hi-tech, trovate da due soldi per impressionare il pubblico, in perfetto contrasto con uno scrittore che, per esempio in Memorie di un artista di merda, aveva messo su pagina il ritratto del perfetto sfigato, cioè il proprio autoritratto. Altro che polizia precrimine ipertecnologica.
Non è soltanto una questione di effetti speciali o di ambientazioni esteriori. I personaggi di Dick spesso hanno una tridimensionalità completa, un pensiero autonomo sviluppato. Certo, a volte finiscono per essere dei replicanti dell’autore, specie quando si immergono in dialoghi con se stessi che sembrano ripeterne i soliloqui.
Dick aveva fatto i conti con le proprie manie, i propri tic, i propri sbandamenti mentali e li aveva messi tutti in fila, riempiendo le pagine migliori dei suoi libri. Che spesso sono costellati di personaggi che non sanno quale direzione prendere, in universi stranianti e sempre capaci di riservare livelli diversi di oppressione.
La madre ossessiva, la sorella gemella morta nella primissima infanzia, le mogli, spesso pazze quanto lui, il lavoro da commesso in un negozio di dischi, l’FBI che lo aveva (veramente) pedinato, le congiure che si era inventato in modo paranoico, le compagnie di sballati che aveva frequentato nella San Francisco hippy di fine anni Sessanta, spesso uscendone però sobrio come Socrate dopo il Simposio, sono tutti ingredienti reali che entrano nelle sue storie di fantascienza e che si possono ritrovare passo per passo. Certo, poi c’è sempre un trompe l’oil, un déja vu, un passaggio per un mondo “altro” e lontano che fa capire come la realtà non sia altro che inganno.
Impressioni, ispirazioni, spunti e allucinazioni tratte dai suoi romanzi emergono in maniera paradossalmente più pura in film e serie che non sono direttamente tratte da suoi scritti. Difficile immaginare The Truman Show oppure la serie Lost senza il contributo degli scritti di Dick. Un mondo fittizio costruito tutto intorno a una persona sola, oppure un uomo che deve premere un pulsante in un bunker nascosto sotto un’isola per evitare la fine del mondo sono incubi perfettamente dickiani, nell’intimo.
Oppure Matrix. Che deve tanto a Dick quanto a Platone. Be’ il primo almeno, non i due dimenticabili sequel. O ancora un’altra serie più recente e molto suggestiva come Legion, dove fantasia, follia e realtà sembrano avvicendarsi su uno stesso piano senza soluzione di continuità. Un po’ come nella vita di Dick.
Non è necessario, peraltro, che un prodotto televisivo o cinematografico tratto dai lavori dickiani sia brutto per essere comunque fuorviante rispetto al pensiero dell’autore. Per esempio la serie di Amazon tratta dalla Svastica sul sole, pur essendo realizzata in maniera ammirevole e con spunti interessanti (anche qui c’è dietro Ridley Scott), non si impegna a capirne la poetica, preferendo ampliare il discorso in orizzontale. Anche se, nel contesto distopico in cui Germania e Giappone hanno vinto la Seconda guerra mondiale, inserisce idee come una gioventù hitleriana degli anni Sessanta impegnata in festini a base di amore libero e LSD, molto alla Philip K. Dick. Buone idee insomma, ma inserite in una sorta di romanzo corale con realtà alternative.
E un “romanzo corale” tratto da un libro di uno scrittore quasi autistico non sembra un’idea così adatta. Ma del resto entrare in profondità nella psiche di uno come Dick è pericoloso, sconsigliabile. Perfino il miglior risultato tra i prodotti filmati tratti dai suoi libri, Blade Runner appunto, ha costretto al tradimento almeno parziale Scott e i suoi sceneggiatori. Che per rispetto (oltre che per amore di sintesi) cambiarono titolo al romanzo Do the androids dream of electric sheeps? facendone un capolavoro del cinema, ma prendendo comunque soltanto alcune suggestioni di un romanzo in realtà incentrato tutto sull’empatia.
Quello dello scrittore americano è stato il miglior camuffamento possibile: scrivere storie di omini verdi per raccontare dell’uomo comune, molto più folle e fantascientifico di qualunque stirpe di marziani possa sbarcare sulla Terra.
In un certo modo, forse la realtà ha fatto il possibile per adeguarsi agli incubi di Dick. Un uomo che voleva soltanto capire di che provenienza fossero le voci che sentiva nella propria testa e ha finito per dare forma al suo futuro. Che, per inciso, è il nostro presente.