Con l’umile ma malcelata ambizione di fornire ai lettori di TRAKS qualcosa di “diverso”, che si possa leggere accanto, insieme, sopra e sotto la musica che accompagna le nostre giornate, questo agosto abbiamo deciso di proporre o riproporre alcuni articoli monografici che abbiamo scritto in passato, per lo più su altre testate, e che non volevamo andassero persi. Letture estive, ma anche per ogni stagione.

Un momento, “Love, love me do/you know, I love you”. Un momento dopo, una tizia giapponese che urla come una pazza per pezzi di durata infinita, su dischi e brani cointestati a John Lennon. Forse soltanto quando si realizza che tra l’esordio dei Beatles (primo singolo ottobre 1962) e la fine del gruppo (tra il ’69 e il ‘70) sono passati poco più di sette anni, si può capire lo shock di chi ha amato la band più famosa e importante del pop.

E di chi, fin da subito, e senza freni, ha odiato Yoko Ono. Perché la classica definizione “o la ami o la odi” si attaglia perfettamente alla personalità dell’artista giapponese. E Yoko ci ha sguazzato amabilmente, costruendo attorno a se stessa un personaggio che ha spesso fatto a meno del concetto di “simpatia”, in tutte le sue accezioni.

Erede di una famiglia giapponese molto importante, con ascendenze paterne antiche addirittura di rango imperiale, Yoko ha ricevuto in dote anche un po’ del disinteresse che sua madre le ha riservato nell’infanzia e nell’adolescenza: la iscriveva alle scuole più prestigiose del Giappone, tanto che aveva per compagni di banco i figli di Hirohito, ma per il resto la ignorava e si dedicava alle feste e alla bella vita.

Benché abbia acquisito parte della sua fama grazie alle arti visuali, il primo interesse di Yoko è stata la musica: voleva fare la pianista e la compositrice e per questo si imbarca per l’America, dove conosce LaMonte Young, John Cage e altri esponenti dell’avanguardia.

Della quale inizia ben presto a far parte in prima persona: il suo primo componimento nasce ascoltando il canto di un uccello. Decide di imitarlo, ma trova l’impresa impossibile: ecco quindi Secret Piece, una composizione senza musica in cui le note sono tutte nella mente della compositrice.

È solo l’inizio: tra composizioni musicali che prevedono che si scaglino delle frecce contro un pianoforte e film sperimentali in cui inquadra soltanto fondoschiena nudi, Yoko entra a far parte della storia dell’arte con un certo clamore e con notevoli gradi di provocazione.

È molto celebre l’esposizione che Yoko organizza al MoMa di New York. La mostra si chiama This Is Not Here, e contiene proprio quello che promette: niente. Gli spettatori si recano al museo per scoprire che non ci sono opere, e che anzi le opere d’arte sono loro stessi, ripresi da alcuni cameraman.

Diventa una delle figure centrali del Fluxus, il movimento d’avanguardia che ha tra i suoi scopi l’interattività tra arte e pubblico. E la sua carriera è in piena ascesa artistica quando incontra per la prima volta John Lennon. Senza riconoscerlo: è il novembre del ’66, quel tizio con gli occhialini tondi forse le ricorda qualcuno, ma vai a sapere chi.

Quando lo conosce, comunque, ne è affascinata e catturata molto presto. Anche se la relazione non decolla subito. Tra l’altro, la frequentazione con Lennon non distrugge soltanto i Beatles, ma anche i legami di Yoko con i suoi amici artisti. Che la bollano come “venduta”, anche perché si mette a fare cose chiaramente “commerciali”, tipo imballare il leone di pietra sotto la colonna di Nelson a Trafalgar Square.

Non bisogna pensare al legame tra John e Yoko che arriva e provoca un’esplosione nella band. Il processo è stato lungo e (anche) sotterraneo. Certo gli altri tre hanno iniziato a sospettare qualcosa quando la coppia ha piazzato un letto al centro dello studio di registrazione, e Yoko ha cominciato a girare, tutta vestita di nero, senza sorridere mai, dettando istruzioni e cercando di infilare le proprie iniziative concettuali e decostruite nei dischi dei Beatles.

Ringo, che alla lunga si dimostra il “saggio” del gruppo (per dire di come erano messi gli altri) spiegherà:

“Yoko e Linda si sono prese un sacco di merda, ma la fine dei Beatles non è colpa loro. Il problema è che d’improvviso avevamo 30 anni, eravamo tutti sposati e cambiati”.

Linda, ovviamente, è la signora McCartney, che secondo i più ha esercitato una forza disgregatrice seconda soltanto a quella di Yoko. Ma quindi è vero o falso? Yoko Ono ha ucciso i Beatles, oppure sono morti di morte naturale?

Risposta impossibile e comunque opinabile. Certo il gruppo non era pronto, i fans non erano pronti, il mondo non era pronto, e ascoltando tuttora qualche brano del White album, che vede interventi significativi di Yoko, si direbbe che non sia pronto neanche adesso.

Dopo la conflagrazione della band “più famosa di Gesù Cristo” (cfr. John Lennon) la coppia ha continuato a far discutere, con i bed-in, spedendo ghiande ai leader del mondo in segno di pace, e con dischi, innovativi sì, ma non sempre adatti ai gusti del pubblico, per usare un largo giro di parole.

Del resto, dei gusti del pubblico, a Mrs. Ono è sempre importato pochissimo: ha continuato con coerenza lungo una strada tracciata da sé, non curandosi delle critiche che piovevano da svariate parti. Come fa un artista vero.

Ha trovato sempre soluzioni originali anche nella vita privata, per esempio quando ha deciso che Lennon aveva bisogno di una pausa e l’ha spinto fra le braccia di May Pang, durante il famoso “Lost Weekend” durato un anno e mezzo. Non quello che la casalinga di Voghera farebbe con un marito in cerca di distrazioni.

Poi l’ha ripreso in casa, sempre mantenendo un certo distacco glaciale, e così anche con il figlio Sean. In fondo, come aveva fatto sua madre con lei. Del resto era John che rincorreva Yoko. E che la chiamava “Mother”, o Mother Superior, appellativo con cui finirà all’interno del testo di Happiness is a warm gun, forse la canzone più inquietante della storia dei Beatles.

Madre, dunque. Un modo, per John, con cui collegarsi alla madre che aveva perso a diciassette anni e che, già quando ne aveva cinque, lo aveva affidato a una sorella, giudicandosi incapace di crescerlo.

Quello che sorprende tuttora di Yoko Ono è che le sue imprese artistiche sarebbero state degli acchiappa-clic istantanei, se le avesse compiute in epoca Instagram e/o Tik Tok. Presente una tizia urlante che si mette a imballare un leone di pietra in centro a Londra? Però all’epoca Instagram non c’era. Così non le è rimasto che uccidere i Beatles.

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