Un pianoforte e cinque brani strumentali: in teoria qualcosa di già visto. Eppure Andrea Sertori riesce a infondere molte novità, anche con l’aiuto dei synth, all’interno del proprio Mosaic Room, ultimo ep pubblicato. Gli abbiamo rivolto qualche domanda.

Puoi raccontare la tua storia fin qui?
La mia storia inizia con gli studi classici di pianoforte, a 9 anni. Dopo le prime esperienze da giovane tastierista in alcune rock band estemporanee, il destino mi ha legato per parecchi anni agli Avanguardia, band indipendente di rock alternativo, con cui ho registrato un album (“Aldilà del mare” ) e sono aumentate progressivamente sia per quantità che per importanza i concerti dal vivo e le partecipazioni a vari eventi (passaggi radio, interviste, articoli).

Parallelamente all’attività di tastierista, ho sempre continuato il mio studio del pianoforte.
Oltre al pianoforte, è nata nel corso degli anni la grande passione per i sintetizzatori, soprattutto analogici, con i quali sono con il tempo riuscito a esplorare il suono e ricercarne uno mio, per poi trasferirlo nella musica delle band in cui ho militato.
Lo studio dei sintetizzatori mi ha permesso di imparare a coniugare musica pianistica classica a musica elettronica.

Tra le altre cose negli anni ho collaborato alla realizzazione di un disco di musica elettronica con un dj e ho avuto un’altra interessante esperienza nella band elettronica Simula Fake. Oggi faccio parte dei Gyzah, rock band con la quale sono riprese e rielaborate con arrangiamenti personali pietre miliari del rock progressivo anni ’70. Da tastierista attivo dei Gyzah, è successivamente sorta l’esigenza di realizzare un lavoro proprio, da solista, alimentato da tante idee rimaste nel cassetto. Di qui la pubblicazione di Mosaic Room.

Il tuo ep, “Mosaic Room”, presenta brani che spesso hanno variazioni “nervose” e improvvise al proprio interno. Con quale stato d’animo e con quali ispirazioni l’hai composto?

Mosaic Room è stato un disco istintivo, un collage di frammenti musicali e pensieri estemporanei che accostati dovevano formare qualcosa di più grande e ampio. Potrei chiamarlo matrioska musicale. I titoli messi in fila rappresentano l’escalation di emozioni, la metamorfosi dal malinconico al felice.

Non ti spaventa (si direbbe per niente) mescolare elementi elettronici alla sostanza del tuo comporre, che mi sembra originare invece tutta dal pianoforte. Come sei giunto a capire che questo mix era ideale per la tua sensibilità?

Diciamo che questo disco è stato un esperimento, il mix ideale per la mia sensibilità ma soltanto nel preciso momento in cui l’ho registrato. In realtà il mio comporre è ancora in evoluzione, sto sperimentando.

Quali sono gli artisti che apprezzi e ammiri di più?

Sono sempre stato attratto dai funamboli del rock progressivo, ma anche da band come i Kraftwerk e da Chopin. Come vedi antipodi (soltanto in apparenza, credo io). Sono affascinato dalla musica che parla, anche se apprezzo i bei testi.

Il disco è uscito qualche tempo fa. Hai in ballo nuovi progetti? Ce ne puoi parlare?

Sto ultimando le registrazioni di un nuovo lavoro che avrà le caratteristiche dell’album perché ci saranno nove pezzi, tutti strumentali. Forse sarà un lavoro meno intimista, meno Mosaic Room, anche se qualcosa di simile ci sarà. Ho usato molti più suoni, qualche ritmica e diverse sorprese. Un disco con tante forme.

Andrea Sertori traccia per traccia

L’apertura dell’ep è quella di Drops and Sun: si capisce soltanto approfondendo e affrontando il percorso che cosa c’entri il mosaico con questa animata ballata per piano che accoglie un intarsio elettronico poco dopo la metà.

Più pesanti e cupi i toni di Broken Toy, con il pianoforte che sulle prime indugia sulle ottave basse, trovando poi piano piano i temi del riscatto. Tutto il brano risente di cvambi d’umore, e anche qui c’è un passaggio sintetico piuttosto significativo.

The Kiss That Heals opta fin da subito per atmosfere più allargate, tenui ma ben presenti, che sorreggono un discorso fitto e ancora una volta suscettibile di variazioni in corsa.

La seguente Afternoon at the Circus inizia la coniugazione tra analogico e digitale fin dalle prime battute, per esiti molto più avventurosi che fanno pensare anche ad antiche composizioni in campo progressive (vedi Jethro Tull di A passion play), se non fosse che presto parte un ritmo techno assolutamente folle e fuori quadro.

Particolarmente vibrante l’avvio di Claw Machine, ultimo brano che piano piano però si placa e lascia spazio a un congedo molto più moderato e intimo.

L’ep di Andrea Sertori colpisce per originalità: ti aspetti un discorso pianistico ed emerge qualcosa di molto più composito, in cui si possono apprezzare anche le sporcature fuori dal foglio proprio per la vitalità complessiva che il tutto trasmette.

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