Come da tradizione (recente) dedichiamo agosto alla lettura: per il 2024 abbiamo deciso di ripubblicare una serie di pagine tratte dal volume “Italia d’autore” (Arcana, 2019), dedicato ai grandi cantautori che hanno fatto la storia della musica italiana.
La discografia ufficiale di Fabrizio De André ha inizio nel 1966 con Tutto Fabrizio De André: si tratta dell’esordio su lp di un cantautore che è già noto sia per alcuni 45 giri di un certo successo, sia per una modalità di approccio alla canzone del tutto peculiare, tanto vicina alla letteratura che è impossibile distinguere l’una dall’altra. Tutto Fabrizio De André (ma non era certo tutto) è una raccolta: contiene alcune delle canzoni che il cantautore genovese aveva già pubblicato su 45 giri, come La guerra di Piero, La canzone di Marinella, La ballata dell’eroe, insieme a pezzi più recenti come La ballata dell’amore cieco, Amore che vieni, Amore che vai e La canzone dell’amore perduto.
Quest’ultima diventerà una delle più apprezzate del repertorio di De André, uscita anche in formato 45 giri nel marzo del 1966 con La ballata dell’amore cieco come lato B. Non si tratta di una canzone facile, nemmeno prendendo Marinella o La guerra di Piero come prototipi di una “facilità” di De André del tutto particolare. La musica è in realtà un arrangiamento di un brano del XVII secolo di Georg Philipp Telemann, che però De André non dichiara: un’abitudine, quella di rielaborare musica altrui, a volte senza riconoscerlo, che non perderà mai.
Ma certo la tematica amorosa e una certa linearità della musica stessa hanno fatto diventare questa canzone una delle più popolari di De André, tanto che nel corso degli anni è stata omaggiata anche da voci del tutto inaspettate: colleghi e pari grado quali Gino Paoli e Franco Battiato, un’interprete di prim’ordine come Antonella Ruggiero, ma anche cantautori di sensibilità più pop come Baglioni e Mango.
Ma i capolavori non sono mai di nicchia: La canzone dell’amore perduto è il racconto della fine di un amore di lungo corso, visto però con gli occhi di lei. Lei che ha visto spegnersi «l’amore che strappa i capelli» e le promesse come «Non ci lasceremo mai/mai e poi mai». Così, lui coprirà d’oro e di baci la prima che incontrerà per strada, immemore di tutte quelle rose del passato, ormai sfiorite. Ricorda la prima moglie di De André, Enrica “Puny” Rignon, nel libro Vita di Fabrizio De André di Luigi Viva (Feltrinelli, 2000):
Molte delle canzoni che ha scritto sono reazioni a momenti particolari vissuti in famiglia o fuori. Amori andati a male, amori finiti. Uno qualunque certe cose se le trascina dentro, lui ha questa genialità di riportarle nei suoi pezzi. La canzone dell’amore perduto l’ha scritta quando i giochi tra noi erano ormai fatti. Le cose andavano male, ma abbiamo continuato a vivere insieme perché ci volevamo ancora bene
De André dice:
Lessi Croce, l’Estetica, dove dice che tutti gli italiani fino a diciotto anni possono diventare poeti, dopo i diciotto chi continua a scrivere poesie o è un poeta vero o è un cretino. Io, poeta vero non lo ero. Cretino nemmeno. Ho scelto la via di mezzo: cantante
Faber, il poeta riluttante
Si può discutere dell’affermazione di De André e ci si può chiedere: se “poeta” non lo si può dire di lui, di chi lo si può dire? Nato nel quartiere genovese di Pegli il 18 febbraio 1940, a dargli il soprannome “Faber” fu Paolo Villaggio, amico d’infanzia e di curiose avventure. Il padre di Fabrizio, Giuseppe, è un uomo politico, vicesindaco repubblicano di Genova, che durante la guerra deve portare con sé la famiglia, costituita anche dalla moglie Luisa e dal figlio più grande Mauro, nelle campagne dell’Astigiano, perché ricercato dai fascisti.
Tornati a Genova, i coniugi De André cercano di dare a Fabrizio un’educazione come si deve, ma scuole statali e istituti retti da suore si trovano di fronte un personaggio che già allora procede “in direzione ostinata e contraria”, manifestando una visione del mondo e della scuola che non coincide mai con quella dei professori. Quando approda alla scuola gesuitica accade l’episodio più grave, ma non per colpa sua: è vittima di un tentativo di molestia sessuale, per fortuna fallito, da parte di un gesuita.
Alla fine Fabrizio si iscriverà all’Università di Genova, ma a sei esami dalla laurea lascerà gli studi per avere più tempo per ciò che lo interessa di più: la musica. Alla fine degli anni Cinquanta frequenta il locale La borsa di Arlecchino, in cui si esibisce alla chitarra che ha imparato a suonare anche grazie all’aiuto di amici come Luigi Tenco, Gino Paoli e Umberto Bindi. Con Villaggio invece ogni tanto s’imbarca sulle navi da crociera per guadagnare qualche soldo, visto che i rapporti con la famiglia d’origine non sono proprio brillanti. Ama il jazz, ma ciò che lo colpisce è lo stile di alcuni, ben precisi, artisti europei:
All’inizio ho voluto trasportare nella canzone dei temi che erano bagaglio esclusivo della letteratura in quella che era considerata, in Italia almeno e a torto, un’arte minore quale la canzone. L’avevano fatto già prima di noi Kurt Weill o Bertolt Brecht in Germania, oppure Brassens e Brel in Francia.
L’idea è questa: la canzone non è destinata a essere confinata nel recinto delle arti minori, basta che qualcuno sappia farla salire di grado. Mentre pensa a cosa fare del proprio futuro musicale Fabrizio conosce, frequenta e sposa Enrica Rignon, da cui avrà un figlio che in futuro cercherà di riempire le sue enormi scarpe, Cristiano.
Nel frattempo era uscito il primo 45 giri, Nuvole barocche, che sul lato B ha E fu la notte. Fino al 1966 usciranno altri singoli, tra cui La canzone di Marinella, che avrà grande successo soprattutto nella versione di Mina. Poi esce il primo lp, il già citato Tutto Fabrizio De André, ripubblicato due anni dopo con il titolo La canzone di Marinella, ma nel frattempo sono usciti altri capolavori.
Si parte con Volume I del 1967, con canzoni che si occupano degli ultimi, come Bocca di Rosa e Via del Campo, brani che affrontano, da una prospettiva del tutto personale, le tematiche della fede, come Si chiamava Gesù («non si può dire che sia servito a molto/perché il male dalla terra non fu tolto»), canzoni che omaggiano la musica di Brassens, come Marcia nuziale e La morte, nonché Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, su testo di Paolo Villaggio, che unisce storia e ironia.
Tra preghiere e cantici
Il 1967 però è anche l’anno della morte di Luigi Tenco, cui Fabrizio era legato da un’amicizia e da una vicinanza ideale molto intensa: ad aprire Volume I è infatti Preghiera in gennaio, scritta di getto poche ore dopo la morte del cantautore di Cassine. Nel 1968 arriva Tutti morimmo a stento, concept album basato sulla poetica, allucinata, sarcastica e crepuscolare di François Villon.
Il disco si apre con il Cantico dei drogati e contiene altri capolavori come Inverno, Leggenda di Natale e Ballata degli impiccati. Come si vede, non c’è un vero e proprio salto di qualità nella produzione di De André: ogni disco, e spesso ogni canzone, costruisce un dettaglio ulteriore della figura di quello che, in breve, sarà guardato come il cantautore per eccellenza, come il tramite elettivo tra musica popolare da una parte e poesia e letteratura dall’altra.
A breve esce anche Volume III, che riprende canzoni già pubblicate ma aggiunge Il Gorilla, S’i’ fosse foco (da Cecco Angiolieri), Nell’acqua della chiara fontana e Il Re fa rullare i tamburi. Non meno significativo l’episodio successivo: La buona novella, basato sui testi dei vangeli apocrifi. Canzoni come L’infanzia di Maria, Il ritorno di Giuseppe, Maria nella bottega di un falegname si concentrano soprattutto sull’umanità quasi banale dei personaggi coinvolti nelle storie che altri definiranno sacre.
Quando scrissi “La buona novella” era il 1969, si era quindi in piena rivolta studentesca e le persone meno attente, che poi sono sempre la maggioranza di noi, compagni, amici, coetanei consideravano quel disco come anacronistico. Mi dicevano: «Cosa stai a raccontare della predicazione di Cristo, che noi stiamo sbattendoci perché non ci buttino il libretto nelle gambe con scritto sopra sedici; noi facciamo a botte per cercare di difenderci dall’autoritarismo del potere, dagli abusi, dai soprusi». […] Non avevano capito, almeno la parte meno attenta di loro, la maggioranza, che “La buona novella” è un’allegoria. Paragonavo le istanze migliori e più ragionevoli del movimento sessantottino, cui io stesso ho partecipato, con quelle, molto più vaste spiritualmente, di un uomo di 1968 anni prima, che proprio per contrastare gli abusi del potere e i soprusi dell’autorità, si era fatto inchiodare su una croce, in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali
Accanto a De André, oltre ai collaboratori classici come Reverberi, c’è un gruppo che cambia spesso formazione, i Quelli, che più avanti farà parlare di sé con il nome di Premiata Forneria Marconi; inoltre, al violino, si trova anche un turnista di nome Angelo Branduardi. Nel 1971 esce Non al denaro, non all’amore né al cielo, libero adattamento, eseguito insieme a Giuseppe Bentivoglio, di alcune poesie della celebre Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters; alle musiche collabora Nicola Piovani.
Fernanda Pivano ruberà una famosa intervista a De André, che non vorrebbe rilasciare dichiarazioni, ma che la grande importatrice della beat generation ottiene con lo stratagemma di nascondere un registratore. Il cantautore parla liberamente e quando si accorge del raggiro non se la prende più di tanto. Quando la Pivano gli chiede delle operazioni fatte sui testi di Masters, De André risponde di averle fatte:
Addirittura per rendere più attuali i personaggi, per strapparli alla piccola borghesia della piccola America del 1919 e inserirli nel nostro tipo di vita sociale. Quando dico borghesia non dico “babau”, dico la classe che detiene il potere e ha bisogno di conservarselo, no? Il suo potere. Ma anche nel nostro tipo di vita sociale abbiamo dei giudici che fanno i giudici per un senso di rivalsa, abbiamo uno scemo di turno di cui la gente si serve per scaricare le sue frustrazioni (è tanto comodo a tutti, uno scemo…)
Come un ortaggio
Nel 1972 si trova iscritto al Festivalbar suo malgrado e convoca una conferenza stampa per dire che la Produttori Associati lo ha trattato «come un ortaggio». Vittorio Salvetti trova un compromesso, ammette la canzone Il chimico in gara, ma dispensa De André dall’esibizione anche in caso di vittoria, che non arriverà. Dopo un omaggio a Leonard Cohen con un 45 giri che ha sul lato A Suzanne e sul lato B Giovanna d’Arco, arriva, nel 1973, Storia di un impiegato. Si tratta di una delle opere più controverse del cantautore genovese, tanto che lui stesso ne parlerà in questi termini in un’intervista alla Domenica del Corriere:
Quando è uscito “Storia di un impiegato” avrei voluto bruciarlo. Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di aver usato un linguaggio troppo oscuro, difficile. L’idea del disco era affascinante. Dare del Sessantotto una lettura poetica e invece è venuto fuori un disco politico. E ho fatto l’unica cosa che non avrei mai voluto fare: spiegare alla gente come comportarsi
Lo critica la stampa ma anche un collega, Giorgio Gaber, che gli rimprovera il lessico da liceale e il fatto di non prendere una posizione politica netta. La fase personale e quella professionale sono negative: finisce il matrimonio con Puny, la striscia di album memorabili sembra terminata, la critica si è fatta diffidente. Ma ci sono anche nuovi inizi: per esempio la collaborazione con Francesco De Gregori, che lascia tracce nel disco Canzoni del 1974, e il fidanzamento con Dori Ghezzi, conosciuta proprio durante le registrazioni dello stesso lp.
È anche questo il periodo in cui inizia a esibirsi in pubblico, vincendo la storica timidezza, aiutato anche da corpose dosi di superalcolici e dallo spettacolare compenso che Sergio Bernardini, padrone del locale La Bussola di Marina di Pietrasanta, gli offrirà per il primo concerto: 300 milioni di lire, che a metà anni Settanta vogliono dire qualcosa.
Più avanti si saprà che in questo periodo, analogamente a quanto accaduto per esempio a John Lennon con l’FBI in America, De André era sotto l’osservazione del Sisde, perché ritenuto vicino ad ambienti di sinistra extraparlamentare, se non addirittura alle Brigate Rosse. Curiosa circostanza, anche perché spesso, durante i concerti, ragazzi di sinistra contestano De André perché troppo “borghese”: l’Italia è da sempre e per sempre un Paese per lo più incomprensibile. Nel 1975 esce Volume VIII, che include altre tracce dell’ammirazione per Cohen, nonché una delle canzoni più amate dallo stesso De André, Amico fragile, di cui parla così:
Stavo ancora con la Puny, la mia prima moglie, e una sera che eravamo a Portobello di Gallura, dove avevamo una casa, fummo invitati in uno di questi ghetti per ricchi della costa nord. Come al solito, mi chiesero di prendere la chitarra e di cantare, ma io risposi: «Perché, invece, non parliamo?». Era il periodo che Paolo VI aveva tirato fuori la faccenda degli esorcismi, aveva detto che il diavolo esiste sul serio. Insomma a me questa cosa era rimasta nel gozzo e così ho detto: «Perché non parliamo di quello che sta succedendo in Italia?». Macché, avevano deciso che dovessi suonare. Allora mi sono rotto le palle, ho preso una sbronza terrificante, ho insultato tutti e sono tornato a casa. Qui mi sono chiuso nella rimessa e in una notte, da ubriaco, ho scritto Amico fragile. La Puny mi ha stanato alle otto del mattino, non mi trovava né a letto né da nessuna parte, ero ancora nel magazzino che finivo di scrivere
Da Rimini alla Sardegna
Nel 1978 esce Rimini, a cui partecipa per la prima volta come coautore Massimo Bubola, con Sally, Andrea, che parla di omosessualità e che De André esegue allo Smeraldo di Milano con le luci accese, per evidenziare come non si tratti di un tipo di amore da nascondere, e con Zirichiltaggia (Baddu tundu), in dialetto gallurese: il dialetto e la Sardegna saranno due degli elementi caratteristici della seconda fase della produzione del cantautore.
È del 1978 anche il tour forse più importante nella storia della musica leggera italiana: quello che Fabrizio conduce al fianco e su invito, spinta e sollecitazione della PFM. Non è un tour lunghissimo ma mette a confronto due tra le realtà più importanti della nostra produzione artistica dell’epoca, con la band in grado di regalare una dimensione diversa alle composizioni del cantautore genovese, il quale conserverà negli anni seguenti dal vivo molti degli arrangiamenti che il gruppo di Mussida e Di Cioccio aveva dato ad alcuni dei suoi classici, come Bocca di rosa e La canzone di Marinella.
La Sardegna per De André e per Dori Ghezzi diventa una seconda casa, o forse una prima: la coppia si stabilisce in una tenuta nei pressi di Tempio Pausania, anche in previsione della nascita della figlia Luisa Vittoria. Ma l’ammirevole terra di Sardegna non riserba soltanto cortesie per i due: la sera del 27 agosto 1979 Dori e Fabrizio sono rapiti dall’Anonima Sequestri sarda. Il clamoroso rapimento dura ben quattro mesi: sono prigionieri nei pressi del Monte Lerno. Dori è liberata il 21 dicembre, Fabrizio il giorno successivo, dopo il versamento del riscatto di circa 550 milioni di lire, in buona parte pagato dal padre Giuseppe.
Intervistato poco dopo la liberazione, De André racconta l’esperienza senza sentimenti di odio. «Noi ne siamo venuti fuori, mentre loro non potranno farlo mai», dichiara. Durante le indagini, come narra Luca Pollini in Settanta. Gli anni che cambiarono l’Italia: «I due non riconoscono nessuno dei luoghi indicati, non sanno mai dare indizi agli investigatori, come il tono della voce, l’inflessione dialettale o il colore degli occhi: si comincia a sospettare che in qualche modo coprano i loro rapitori».
Così, anche il sequestro dà adito a critiche per De André. Per esempio, quando cede a pagamento l’esclusiva del memoriale al settimanale Oggi, non sono pochi quelli che gli ricordano che la rivista diretta da Edilio Rusconi ha dichiarate simpatie politiche per la destra. De André farà tesoro di questa esperienza nel primo disco post sequestro, uscito nel 1981.
L’album, senza titolo, è noto come L’Indiano perché in copertina c’è l’opera di Remington, The Outlier, con un nativo americano a cavallo. Anche le tematiche sono quelle della frontiera, ma il Far West italiano è la Sardegna e i sardi sono visti come popolo oppresso dagli invasori. Il pezzo più famoso del disco è comunque Hotel Supramonte, che allude direttamente (per quanto diretto possa essere un brano di De André) al rapimento.
Un funerale da invidiare
Nel 1984 esce Creuza de mä, tutto cantato in genovese e considerato un momento fondamentale, benché forse involontario, per l’invenzione della world music. Ammesso che world music voglia dire qualcosa che non sia “musica che non rispetta i canoni della musica occidentale”, del che si può dubitare. L’attività rallenta, almeno a livello di album: a parte il matrimonio con Dori, celebrato nel 1989, e qualche collaborazione, tra cui quella nobilissima in Questi posti davanti al mare di Ivano Fossati, accanto anche a Francesco De Gregori, si deve attendere il 1990 per Le nuvole, a cui collaborano lo stesso Fossati, Mauro Pagani, Massimo Bubola e Francesco Baccini. Nel disco, che contiene anche Megu Megun e La domenica delle salme, c’è anche Don Raffaé, scritta con Bubola e Pagani, così somigliante alla figura del boss Raffaele Cutolo che lo stesso camorrista scrive a De André per complimentarsi.
Nel 1996 esce il concept Anime salve, incentrato sul tema della solitudine e frutto di una nuova collaborazione con Ivano Fossati. Si arriva così all’estate del 1998: c’è la tournée, c’è un’ultima polemica acerrima da suscitare, quando dichiara, durante il concerto di Roccella Jonica: «Se nelle regioni meridionali non ci fosse la criminalità organizzata, come mafia, ‘ndrangheta e camorra, probabilmente la disoccupazione sarebbe molto più alta», e c’è una sentenza, finale.
È il carcinoma polmonare, diagnosticato ad agosto, che impiegherà alcuni mesi a vincere la sua battaglia: è l’11 gennaio 1999 quando De André chiude gli occhi per l’ultima volta. I funerali si svolgono nella Basilica di Santa Maria Assunta in Carignano a Genova il 13 gennaio, alla presenza di oltre 10.000 persone, fra cui l’amico d’infanzia Paolo Villaggio, che dichiara:
Io ho avuto per la prima volta il sospetto che quel funerale, di quel tipo, con quell’emozione, con quella partecipazione di tutti non l’avrei mai avuto e a lui l’avrei detto. Gli avrei detto: «Guarda che ho avuto invidia, per la prima volta, di un funerale»
Villaggio, come dimostrerà il suo, di funerale, si sbagliava. Oggi ovviamente Fabrizio De André è santificato e da tutti considerato come il maggiore poeta italiano del dopoguerra, come gli disse Fernanda Pivano nel conferirgli un premio: ma almeno lei lo pensava davvero. Gli è stato dedicato anche un film, diretto da Luca Facchini, trasformato in una miniserie da due puntate trasmessa dalla Rai: come tutti i prodotti Rai, presenta una visione un po’ edulcorata e un po’ agiografica della vita del cantautore. Ma benché criticabile e criticato, ha rappresentato una testimonianza tangibile dell’importanza ancora centrale di De André nella musica e nella cultura italiana.
Ripercorrere le tappe della sua vita significa anche entrare in frizione con tutte le asperità di un carattere che non fu mai facile, né benevolo né amichevole, almeno non con tutti. Non è giusto farne una cartolina, insomma: fu uomo difficile e complesso, con il dono incredibile di trasferire questa complessità alla sua musica. La sua opera deve rimanere da monito: per arrivare vicino alla verità non ci sono strade semplici.