Esperienze già importanti alle spalle, una ricerca per portare a una fase più moderna l’idea di cantautore e un disco, I canti dell’Ontano, pubblicato nel 2014, ad aprire una trilogia. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Gerardo Attanasio.

Con quali idee hai iniziato le lavorazioni de “I canti dell’Ontano”?

Ho cominciato il secondo disco molti anni fa senza saperlo perché raccoglie anche una canzone, Serenata per Kenny, degli anni ’90. Di solito scrivo e metto da parte il materiale, solo in un secondo momento scelgo le canzoni che possono stare insieme, ed è il lavoro più complicato per me.

L’idea fondamentale era quella di trovare una voce che fosse mia e che non riconducesse a nient’altro, fin dove possibile. Inizialmente stavo individuando materiale già prodotto e da produrre per realizzare qualcosa di primaverile, poi le canzoni sono andate da sole verso la direzione finale conservando della primavera solo i suoni umidi, è diventato un concept sulla distanza declinata a vari livelli.

Ho lavorato così tanto per questo disco da accorgermi di avere più materiale di quello che serviva per riempirne uno solo, così è nata l’idea di sistemare le altre canzoni nello spazio più ampio di una trilogia che ho definito in un appunto “verde”. I suoni evocano un bosco ideale infatti.

Puoi descrivere il concept alla base del disco?

Le canzoni declinano diversi tipi di distanza: dall’infanzia con la prima canzone, Goofus bird, in cui si fa riferimento ad essa come al momento in cui si formano le suggestioni che condizioneranno tutto il nostro sentire, alla distanza dalla vita stessa in Champs Elysees. In mezzo ci passa tutta la vita con le lontananze che talvolta può imporre.

Mi sembra di avvertire una grande cura dei particolari nel tuo lavoro. C’è spazio per la spontaneità oppure è tutto vagliato in modo certosino?

Tutta la spontaneità è vagliata in modo certosino in questo lavoro. C’è stato molto spazio per la spontaneità e per l’estemporaneità, con i pregi e i difetti che questo reca.

Non amo, salvo qualche eccezione, i dischi troppo quadrati in cui tutto suona molto patinato e brillante o editato alla perfezione, così molte performances, soprattutto chitarristiche, sono state lasciate sporche, slabbrate come certo rock che mi piace tanto.

C’è stato il tentativo di usare lo studio di registrazione come uno strumento, ma senza togliere vita a quello che abbiamo suonato.

Come nasce “Notturno”?

Notturno è del 2009, la scrissi per un concorso in cui si dava un appunto inedito di De André, appena due righe, da far diventare canzone. Da quello spunto mi mossi verso Alcmane e il suo omonimo e celeberrimo frammento, immaginandomi una notte di molti anni fa fra le colline della mia terra in un tempo che non ho mai vissuto.

Ne ho varie versioni, con arrangiamenti diversi, ma quella contenuta nel disco rispecchia meglio il paesaggio che volevo evocare, vaga e sognante, con delle basse potenti e la voce femminile di Valentina Bruno nei ritornelli che mi suona come quella di Madre Natura.

“I canti dell’Ontano” apre una trilogia: puoi dirci qualcosa della prossima uscita?

Del secondo capitolo della trilogia al momento posso solo dire che dopo aver intravisto la luce fra le fronde, si esce dal bosco.

 

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