Un progetto a nome individuale, ma che è figlio di un lavoro di squadra molto coordinato e articolato: Nomea è il nuovo album di Giorgia D’Artizio con La Collettiva, un ensemble che viaggia dal jazz al folk, effettuando numerose tappe intermedie. Anticipato dal video di Insolita allegria, il disco è sostanzialmente un’unica suite, incentrata sul tema della follia. Un lavoro corale molto intenso ma anche decisamente vivace, pubblicato da Lilith Label, a proposito del quale abbiamo rivolto qualche domanda all’artista nata a Busalla (Genova).

Ciao Giorgia, come descriveresti il processo creativo che ha portato alla nascita di questo album?

Con Max Ravanello volevamo continuare a comporre dopo l’esperienza di Adriatico statico, una suite musicale che meriterebbe di essere registrata e portata in giro. Ci interessava costruire un album che avesse una tematica principale con brani collegati tra di loro, dove la musica non finisse mai. Abbiamo deciso di esplorare il tema della follia a noi tanto caro e perché ricorrente in discorsi e pensieri.

Da qui sono cominciate le ricerche e piano piano ho iniziato la scrittura dei brani, ispirandomi a vari autori e a esperienze personali, utilizzando la chitarra per trasporre le melodie e Ableton per costruire cori e arrangiamenti musicali scarni. Max a questo punto è intervenuto sui brani arrangiando le melodie e modificando la struttura dove serviva, costruendo atmosfere fiabesche e folcloriche nella narrazione che stava prendendo forma.

In Nomea è stata un’esperienza speciale la lavorazione dei cori con Laura Giavon, Caterina De Biaggio e Daisy De Benedetti. Abbiamo lavorato mesi incontrandoci la domenica a cantare e arrangiare i cori, la polifonia mi ha conquistata grazie a Laura e al suo sapere che generosamente ha condiviso con noi, regalando spiritualità alle canzoni, mi ha fatto intendere il canto da una prospettiva diversa. Cantare in gruppo ha una forza unica.

Nomea è un lavoro a più mani dove anche i musicisti hanno partecipato alla costruzione della musica, durante le prove sfumature e particolari di ognuno sono stati pensati e scelti insieme. È un album che lascia molto spazio interpretativo a ognuno di noi, si può considerare una forma d’arte rigenerativa che cambia ogni volta che viene eseguita, questo grazie all’intuito di Max che scrive delle musiche pazzescamente belle e divertenti da suonare o interpretare.

Come descriveresti l’atmosfera delle sessioni di registrazione dell’album?

Come momenti magici di grande concentrazione, creatività e scambio, adoro registrare in studio e stare con la ciurma pazzesca e i fonici. L’atmosfera tra di noi è di profonda amicizia e rispetto, siamo un gruppo di artisti che collabora e si aiuta. Siamo affiatati politicamente, vogliamo partecipare con la nostra parte migliore alla vita. Siamo una forza!

Qual è la tua traccia preferita dell’album e perché?

Non saprei definire la mia preferita, posso dire che L’umile perso è una storia vera molto più cruda nella realtà dei fatti e che ho romanzato, che Nomea la trovo importante perché liberatoria e molto personale nei suoi contenuti. Terra madre è difficile per me da cantare, sono una punkettona che fuma di lungo con il diaframma che va per i fatti suoi, metto cuore in quello che faccio, interpreto cercando di usare la mia voce più lacrimogena. L’ho scritta per esaltare le voci di Laura, Caterina e Daisy che spaccano, quando la facciamo con il pubblico regala sempre grandi emozioni!

In che modo le esperienze personali hanno influenzato la scrittura dei testi?

Molto perché mi sono occupata da sola della scrittura dei testi ed è stato inevitabile metterci del mio. Fortunatamente essendo persona sbadata e bizzarra ho avuto modo di trovare diversi argomenti… Mi sarebbe molto piaciuto scrivere a più mani, questo è un progetto futuro che tengo in saccoccia, ma in questo lavoro non ho trovato compagne o compagni di penna e ho portato avanti il tutto. Mi sono fatta aiutare da Antonin Artaud, Italo Svevo, Sylvia Plath, Elena Ferrante.

In che modo il tema della follia si riflette nelle canzoni dell’album?

La si ritrova in vari aspetti delle canzoni, sia musicali che di parole. Poi possiamo dire che si sono aggiunte tematiche ricorrenti nelle canzoni, come il nome, l’identità, il corpo…  I cori ripetono e cantano incessantemente, le Strambe sono improvvisazioni di urla, risate, pianti, e frasi. I personaggi che vengono raccontati sono emarginati, disagiati, folli in alcuni loro aspetti per la maggior parte delle persone.

Com’è cambiata la tua visione artistica rispetto ai lavori precedenti?

Ogni volta che si collabora e si compone la visione dell’artista cambia, dopo Nomea ho certamente arricchito il mio bagaglio umano e musicale, collaborando con professionisti, artisti generosi che reputo dotati di talento con cui sono nate profonde amicizie. 

Ci stiamo affiatando sempre più come gruppo e contiamo di portare in giro Nomea il più possibile. L’autunno alle porte profuma anche di nuovi progetti, ho tante idee da scremare e ordinare per scegliere nuove direzioni da battere.

Qual è il significato della canzone Terra Madre nel contesto dell’album?

Terra madre è il luogo dove comincia e si svolgerà la storia di Nomea, ci si arriva, ci si nasce, l’interpretazione è soggettiva perché chi ci arriva si pone domande esistenziali senza risposte… È il primo brano dell’album che si ripete anche come finale, rivisto nelle parole e arrangiamenti, mantenendo la melodia della intro e il refrain Terra Terra Madre.

Nel finale chi parla è morto o comunque non è più nel pianeta Terra Madre, fa una narrazione dei fatti che ha vissuto esterna, da fuori. Le parole che chiuderanno la suite in Terra Madre Outro sono: “È stato un viaggio fatale, non farcelo ricordare se dovremo ancore morire… Terra Terra Madre…

Puoi raccontarci dell’importanza delle Strambe nel contesto della suite?

Sono i collegamenti ai vari brani che preparano gli ascoltatori alla canzone successiva, trasportandoli in situazioni disturbanti e folli abbiamo pensato di creare atmosfere che potessero avere un impatto forte per l’ascoltatore. Max ha una naturale predisposizione nello scrivere musiche che possono arrivare a tutti, facili e fuori dal tempo ma nel tempo, è una sua dote che apprezzo molto, non si perde a fare robe arzigogolate pur avendone le capacità, lui vuole arrivare alle persone.

Qui le sue musiche evocano la fiaba e il folclore, era dunque necessario aggiungere parti disordinate musicali per non perdere troppo il filo del discorso. Sono improvvisazioni di free jazz con rumori e versi di voci rappresentativi di stati d’animo. L’unica ad avere una melodia è la Stramba 4, dove frasi di paura, felicità, rabbia e tristezza si mischiano evocando la confusione in voci che si possono  manifestare nella nostra mente.

Quali sono le tue principali influenze musicali?

Da tanti anni seguo il compagno Freddy Frenzy con la sua North East Sak Jazz Orchestra che collabora da anni con i Wicked Dub Division, ne sono quindi certamente influenzata. Anche il contesto musicale friulano offre ottimi stimoli, Laura Giavon con i suoi progetti per esempio merita di essere ascoltata per come eleva il canto con ottime collaboratrici e collaboratori, interpretando brani di Giovanna Marini, sacri e della cultura popolare in quartetto vocale con le Anutis e con Marco D’Orlando alla batteria e strumenti vari in Rivocscon brani originali scritti e cantati da lei in friulano, italiano, inglese.

Mi piacciono molti autori e autrici italiane, musica che ascolto principalmente, anche se sto cominciando ad aprirmi a nuovi ascolti come lo spagnolo, il francese, lingue africane. Ascolto moltissima Afrobeat perché Freddy Frenzy non può vivere senza, adesso piace molto anche a me… Mi piacciono tanti generi musicali, seguo con affetto autori come Vasco Brondi, Pierpaolo Capovilla, Cristina Nico, Sabrina Napoleone.

Pagina Instagram Giorgia D’Artizio

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