Testo e foto di Chiara Orsetti
Credo che ieri sera qualcuno sia rimasto stupito. E non parlo del pubblico presente all’Arena del Mare, pronto ad assistere alla serata conclusiva del Goa Boa Festival 2018. Credo che lo stupore sia quello di chi è rimasto saldamente ancorato ai soliti nomi della musica italiana, certezze più o meno giustificate delle colonne sonore delle nostre estati, delle nostre vite, snobbando il nuovo, enorme, che avanza. Che non è necessariamente meglio, ma è diverso.
L’indie, l’itpop, i nuovi cantautori che fanno vendere più biglietti di quanto si sarebbe anche soltanto potuto immaginare fino a un paio d’anni fa, è ormai grande abbastanza da riempire piazze, stadi, arene. Basti pensare al piccolo miracolo compiuto da Calcutta, in questi giorni protagonista nella sua città natale, creando un vero e proprio caso mediatico, tanto da finire intervistato sulle pagine di Topolino. Per dire. Ma anche Genova e il Goa Boa hanno dato spazio ai giovani, che non lo sono sempre e solo anagraficamente, ma lo sono per qualità di musica proposta, per sonorità, per attitudine e per intenzione.

La serata conclusiva vede esibirsi sul palco Francesco De Leo, incarnazione di quanto appena scritto. Fondatore e leader de L’Officina della Camomilla, che ha deciso di creare contemporaneamente una carriera solista. Le sonorità dei due progetti sono simili, strizzano l’occhio al rock d’altri tempi con un cantato senza sofisticazioni, con testi coinvolgenti e da ascoltare con attenzione. Sul palco Francesco si muove e suona come un musicista esperto, e sulle note di Mylena e Caracas, due dei pezzi più amati del suo esordio La malanoche, il pubblico inizia a cantare e a scaldare l’atmosfera.
E il pubblico, anche questa sera, è davvero numeroso. Durante i cambi palco il caldo fa svenire qualche ragazzo delle prime file, mentre gli altri continuano a tenere la posizione, con le espressioni fiere che hanno solo i ragazzi che mentre hanno le mani sulla transenna si sentono più vicini all’infinito, non solo al cantante di turno.
I Coma_Cose arrivano puntuali e sorridenti, milanesi per nulla imbruttiti, reduci dalla vittoria del Premio Bindi New Generation come miglior progetto emergente. Francesca, detta California, e Fausto sono due ragazzi che hanno saputo dare vita a una propria personalissima versione di rap, con testi che a ogni ascolto si fanno comprendere un po’ più a fondo, colmi di allusioni ai grandi della musica italiana (per citarne una, da Battisti e la sua Anima Latina arriva il titolo di Anima Lattina, uno dei brani meglio costruiti dal duo).

Milano è raccontata dagli angoli, le ventole dei supermercati e i Navigli diventano protagonisti di fotografie di luoghi in cui non importa essere stati per poterne apprezzare la potenza evocativa. Si muovono sicuri sul palco, i loro sguardi si incrociano raramente ma le loro voci si sanno fondere a meraviglia.
I Coma_Cose hanno eseguito i brani del loro repertorio accompagnati dall’entusiasmo del pubblico: Jugoslavia e il gusto del fumo in bocca all’alba, le riflessioni notturne e silenziose di un innamoramento ucciso sul nascere di Pakistan e il suo ritornello “dolce Venere di rime” che conquista i nostalgici, fino ad arrivare a Nudo Integrale, l’ultimo singolo che gioca su doppi sensi (trovare un cuore e fare un cazzo/è la metafora del mondo) legati all’essenza stessa di libertà, quel che rappresenta e quello che realmente dovrebbe essere. Vederli scendere dal palco è quasi un peccato, ma vederli risalire come headliner sui palchi che verranno è praticamente una certezza.
Quello di stasera, Coez, è un po’ in ritardo. Dalle casse escono grandi classici, dai Toto a Battisti, appunto, e tra una risata e una piccola rissa sedata in fretta arriva il momento tanto atteso.

Siamo morti insieme è il saluto al pubblico dell’artista romano, cantata a squarciagola con un calore vibrante e fluido che dal palco arriva in platea; continua con Non erano fiori, entrambi estratti dall’album omonimo del 2013, quando a cantare con lui erano ancora poche, pochissime persone. Ma è sulle note di Le luci della città che i toni si smorzano e arriva prepotente il turbamento. Perché Coez è così: poche parole sul palco, senza divismi e smancerie. Tante parole nelle canzoni, soprattutto in quelle dove la parte rap è prepotente, semplici ma mirate, precise a toccare le corde delle emozioni. Ed è così che mentre dal palco arriva la domanda “salto nel vuoto, vieni con me?” il cuore fa da cassa di risonanza e fa cantare ancora più forte.
Non sono mancate E yo mamma e Hangover, le parole di gratitudine di un figlio per la madre e di risentimento verso un padre assente, per poi immergersi nuovamente nel solito, maledetto amore. Ecco quindi arrivare successi come Delusa da me, Parquet, Ali sporche. Una breve pausa, un cambio d’abito, occhiali scuri messi e tolti in base all’emozione del momento. Perchè gli Occhiali scuri non vanno mai dimenticati se non sai dove dormirai stanotte.
Dulcis in fundo: è proprio durante la fase finale del concerto che Silvano spara i suoi colpi migliori: appena partono le prime battute di Faccio un casino e La musica non c’è, inizia a cantare anche chi fino a quel momento era riuscito a trattenersi. Il saluto al pubblico arriva con Invece no e La strada è mia, pezzi meno conosciuti ma a cui l’artista confessa di essere molto legato.
Una serata emozionante, sia per i brani che Coez ha saputo regalare, sia per la potenza assoluta della musica, per il suo saper unire, per il suo far emozionare. Lunga vita al Goa Boa e ai festival che la sanno celebrare.