Con l’umile ma malcelata ambizione di fornire ai lettori di TRAKS qualcosa di “diverso”, che si possa leggere accanto, insieme, sopra e sotto la musica che accompagna le nostre giornate, questo agosto abbiamo deciso di proporre o riproporre alcuni articoli monografici che abbiamo scritto in passato, per lo più su altre testate, e che non volevamo andassero persi. Letture estive, ma anche per ogni stagione.

Il termine italiano “fucile” mantiene sotto di sé una grande varietà di armi di tipologie differenti. Soltanto Wikipedia ne elenca almeno venti, tra cui quelli a miccia, a ruota, a pietra focaia, a percussione, ad ago, a percussione centrale, a canna basculante, a otturatore rollante, ad avancarica, a caricatore interno e via discorrendo.

L’inglese, in questo caso, è più preciso: per esempio il termine “rifle”, che è considerato la traduzione esatta di “fucile”, indica soltanto le armi a canna rigata.

C’è tuttora dibattito riguardo al fucile che Ernest Hemingway utilizzò per togliersi la vita, il 2 luglio del 1961. Per anni si è ritenuto che l’arma utilizzata fosse un fucile di tipo Boss, simile a quelli dei cowboy nei film western, per capirsi. Ma più di recente sono emerse prove in base alle quali il fucile in realtà fosse un prodotto della premiata W. & C. Scott & Son.

C’è un’immagine di Hemingway che imbraccia una doppietta, lo sguardo leggermente alterato, ma puntato verso la fotocamera, il petto nudo, soltanto un paio di pantaloni di tela addosso, in un angolo di un bagno in cui si scorge un calorifero e un muro di piastrelle. La foto è datata attorno al 1950.

Ben nota è la passione per la caccia di Hemingway, analoga a quella per la pesca: per quanto pratiche esecrabili, sono state complici in alcuni degli scritti più significativi dell’autore di Per chi suona la campana. Altrettanto noti erano gli atteggiamenti estremi, qualcuno dice machisti, dello scrittore.

Passione per le armi, machismo e voglia di sparare a piccioni, quaglie e altri esseri non proprio minacciosi, cui si aggiunge anche il rispetto quasi sacro nei confronti della corrida, si accoppiano con difficoltà con alcune delle pagine di uno degli autori che hanno messo in luce nel modo più chiaro e definitivo l’assurdità di un’altra pratica umana diffusa e non particolarmente nobile, la guerra. Ma c’è una ragione per tutto. E a volte più di una.

Il giorno prima di uccidersi, Hemingway ebbe una giornata piuttosto tranquilla. Tranquilla almeno per una persona convinta di essere perseguitata dall’FBI. Tranquilla, dal punto di vista di una persona malata di emocromatosi ereditaria, rara malattia metabolica causata da accumuli di ferro nel fegato, nel pancreas e sulla cute. Tranquilla per chi, come Hemingway, era stato sottoposto di recente a una ventina di sedute di elettroshock. Tranquilla se, come Hemingway, si è convinti di avere un cancro, e che nessuno ce lo voglia dire.

Mary Welsh, quarta e ultima moglie, lo aveva anche sentito cantare, nella loro casa di Ketchum, nell’Idaho, una celebre canzone italiana che aveva imparato a Cortina d’Ampezzo da Fernanda Pivano. Era solito canticchiarla nei momenti di serenità:

Tutti mi chiamano bionda, ma bionda io non sono/porto i capelli neri, neri come el carbon

Pochi giorni prima, Mary aveva sorpreso il marito con un fucile e alcune cartucce. Ernest, bonario, le aveva risposto che intendeva soltanto “dargli una ripulita”. Allarmatissima, lei aveva riposto l’arma nell’armadietto e l’aveva chiuso a chiave.

Non era soltanto questione di dargli una ripulita. E le chiavi dell’armadietto non erano così ben riposte come Mary pensava.

Just because you’re paranoid

Ketchum, nell’Idaho, ospita tuttora la salma di Hemingway. È una cittadina di circa 3000 abitanti nel nordovest degli Stati Uniti, gemellata fra l’altro con Lignano Sabbiadoro e collocata nel mezzo di un discreto nulla.

Per arrivare a Seattle, la città maggiore delle, diciamo così, vicinanze, da Ketchum nell’Idaho bisogna prendere l’aereo per un volo di oltre un’ora, oppure percorrere la I-84 E per più di 600 miglia. Ce ne vogliono per l’esattezza 642 per arrivare al lago Washington, che costeggia il lato est della città.

Al contrario di Ketchum, Seattle è una città di dimensioni considerevoli: quasi 700.000 abitanti, la fama di “città musicale” e capitale alternativa conquistata grazie a una scena jazz particolarmente vivida fino agli anni Cinquanta, al fatto di aver dato i natali a Jimi Hendrix ma soprattutto per opera di un certo numero di band della zona che diedero vita al movimento grunge, tra fine anni Ottanta e inizio Novanta.

Il Lake Washington Boulevard è una lunga panoramica che fiancheggia svariati quartieri della città. Non è da qui che i turisti prendono gli scatti migliori: di solito li si porta sull’altra panoramica, quella dal Puget Sound, risultato di un’insenatura profonda dell’oceano Pacifico nel continente. Meglio ancora, si può fotografare la parte nobile e moderna della città dalla Queen Anne Hill, la collina che sovrasta il famoso grattacielo Space Needle e il centro finanziario della città.

La parte di Lake Washington Boulevard è più tranquilla: villette, qualche parco, un teatro di danza, e la vista sul lago. Difficile dire perché due tipi turbolenti come Courtney Love e Kurt Cobain avessero scelto di abitare in questa parte della città. Forse per cercare di crescere in modo più tranquillo Frances, la figlia. Forse per cercare all’esterno la calma che dentro di sé non avevano trovato.

Anche Kurt Cobain ha usato un fucile per togliersi la vita, il 5 aprile 1994. L’arma che utilizzò era un fucile a pompa, modello Remington M-11 calibro 20. Anche Cobain, come Hemingway, aveva spezzato qualche luogo comune nella cultura popolare americana.

Anche di Kurt Cobain si dice che fosse paranoico. Tanto che aveva utilizzato come autodifesa in una sua canzone, Territorial Pissings, una celebre citazione di Joseph Heller, presa da Comma 22: “Just because you’re paranoid doesn’t mean they aren’t after you”. (“Solo perché sei paranoico non significa che non ti stiano inseguendo”).

Anche di Kurt Cobain sono emerse alcune immagini con in mano delle armi. Ma non sembra macho. Semmai spaventato. Oppure pazzo. Come in quella foto in cui, con i due compagni dei Nirvana, siede sul cofano di un’auto e si punta un fucile in bocca. Dave Grohl ridacchia, Krist Novoselic sembra imbarazzato, come se stesse pensando: “Non fateci caso, fa sempre così”. Kurt sembra scherzare.

La teoria dell’iceberg

Si è scritto moltissimo dello stile di Hemingway. Si sono messe in evidenza alcune caratteristiche ben determinate, che ne hanno fatto un unicum nella storia della letteratura americana, almeno fino a quel momento, e un maestro per quelli che sono arrivati dopo, in molti stili letterari differenti.

Era uno dei più notevoli rappresentanti di quella che Hemingway stesso definì, forse su suggerimento di Gertrude Stein, la Lost Generation, la generazione perduta di scrittori americani cresciuti per lo più in Europa e lontano dalla patria. Qualcuno per inseguire le guerre, come lui, Dos Passos, Faulkner, Scott Fitzgerald. Qualcun altro per inseguire fantasmi.

Lo stile di Hemingway è asciutto, a volte duro, e sceglie una forma di understatement che probabilmente gli deriva dagli anni da cronista per giornali come il Kansas City Star oppure il Toronto Star. Il New York Times, recensendo Fiesta (titolo originale The Sun also rises) definirà il suo stile “lean, hard, athletic narrative prose“: una prosa narrativa asciutta, dura, “atletica”.

I suoi personaggi sono chiamati a dimostrare grace under pressure: un eroe, o comunque un uomo, non perde mai educazione e compostezza anche se sta affrontando un pericolo, oppure la morte.

Se sostituissimo “understatement” con “continenza” e “grace under pressure” con “sprezzatura”, potremmo collegare Hemingway alle fonti della letteratura italiana ed europea: la “sprezzatura” era il comportamento che Baldassare Castiglione, nel suo cinquecentesco Il Cortigiano, richiedeva al gentiluomo. È, in sintesi, la disinvoltura nell’affrontare le difficoltà della vita.

La continenza invece ricollega addirittura a Virgilio, e anche in questo caso siamo di fronte a un significato sia stilistico sia comportamentale. Eppure Hemingway, nella vita reale, era tutt’altro che “continente”. Anzi amava ostentare e vivere in modo roboante. Forse amava concedersi quello che ai suoi personaggi non era consentito.

Un’altra teoria interessante è quella cosiddetta dell’iceberg: i fatti, secondo Hemingway, in un romanzo o in un racconto devono galleggiare sull’acqua, mentre la struttura simbolica di supporto sta sotto la linea di galleggiamento. Si parla di questa concezione anche come di “teoria dell’omissione”. Lo scrittore ci racconta un tizio che pesca, ma ci lascia soltanto intendere i pensieri contrastanti che si agitano nella sua testa, omettendo di descriverli nel dettaglio.  

Tutto il contrario di molti romanzieri “tecnici” che hanno avuto fortuna in seguito. Leggi Le Carré e ti spiega quanti scalini ci sono nella sede della Cia, che cosa sta pensando il tizio che ha incrociato il protagonista una volta nel ’77 e la marca di smalto che la segretaria del capo si è messa stamattina.

Ho trovato i miei amici, sono nella mia testa

Anche Kurt Cobain aveva una sorta di teoria dell’iceberg. Be’ non era una teoria, più una pratica: farsi vedere allegro, fuori di testa, schizzato o su di giri quando dentro gli è già morto tutto.

Quando esce, Nevermind, il disco che ha portato i Nirvana al centro della scena, spazza via tutto. Fa giustizia dell’hair metal, del rock da “capelloni” che è in cima alle classifiche da un decennio, uccide la carriera dei Guns’n’Roses, distrugge il futuro delle band che ostentano e ammiccano dai videoclip di Mtv.

Lo stile dei Nirvana colpisce per asciuttezza, purezza, durezza: Smells Like Teen Spirit, che nel corso del tempo spaccherà in due il mondo del rock, è posta in cima alla scaletta dell’album proprio per dire “siamo arrivati”. Ma non c’è ostentazione nella band né in Cobain, che quasi si nasconde nei video, che indossa maglie a righe orizzontali e ha un taglio di capelli che si direbbe del tutto casuale.

La band è associata immediatamente al grunge che sta crescendo in quegli stessi anni a Seattle, ma a dire il vero è qualcosa di diverso. Il grunge di Pearl Jam e Soundgarden è più moderato, ogni tanto più intellettuale, a volte persino più gentile.

Non c’è traccia di gentilezza nei pezzi dei Nirvana, che hanno pubblicato qualche anno prima Bleach, un concentrato di ribollimenti psicanalitici e di urla devastanti, e che in chiusura di carriera si concederanno un pezzo-simbolo che si chiama Rape me, “stuprami”.

I Nirvana, o meglio Cobain, mettono insieme il punk e alcune caratteristiche del metal più adirato, per dare voce alle angosce di Kurt. “Sono così contento/ho trovato i miei amici/sono nella mia testa”, canta in Lithium.

Non era affatto un’oca

Difficile capire perché Hemingway abbia scelto di abitare a Ketchum, Nothing quando, nell’introduzione ai suoi Quarantanove racconti ha messo su carta una frase di questo genere: “Madrid è sempre stato un buon posto per lavorare. Lo stesso si può dire di Parigi, e di Key West, in Florida, nei mesi più freschi; del ranch nel Montana vicino a Cooke City; di Kansas City; di Chicago; di Toronto, e dell’Avana, a Cuba. Certi altri posti non erano così buoni, ma forse eravamo noi a non essere così buoni quando eravamo là“.

Chicago, Toronto, Parigi, L’Avana. Tutti posti movimentati, a parte il Montana; ma almeno lì si era vicino a Cooke City, che non è Madrid ma è qualcosa. Forse la chiave è nei buoni posti “per lavorare”. Basta lavorare, a Ketchum. Basta cose da dire e da scrivere.

Uno dei racconti migliori e più famosi di Hemingway è La breve vita felice di Francis Macomber. Una storia di safari in Africa, di coraggio, di tradimenti e matrimoni problematici. Leggere oggi Francis Macomber significa scontrarsi immediatamente con il carico di post colonialismo, nessun rispetto per le popolazioni locali e meno che meno per gli animali, che l’epoca di Hemingway considerava normali e la presente invece molto meno.

La storia ruota intorno a tre personaggi: Francis Macomber, ricco in cerca di emozioni forti, la moglie Margaret e il cacciatore Wilson, guida nella caccia a leoni e bufali. La ricchezza di Macomber è il collante che tiene insieme il matrimonio: le infedeltà della moglie sono conclamate, ma Macomber è sicuro che lei non troncherà il matrimonio perché non rinuncerà alle sue ampie facoltà economiche, soprattutto essendo “ancora una gran bella donna in Africa, ma non (…) più una gran bella donna in patria”.

L’azione si svolge nel giro di poche ore: Hemingway ci porta già nel bel mezzo dei fatti, poi monta un flashback e infine chiude la vicenda in meno di venti pagine. In sostanza: Macomber e Wilson vanno a caccia di un leone, ma Macomber, di fronte a tutti, fa la figura del codardo scappando a gambe levate, di fronte alla bestia già moribonda.

Come conseguenza, la moglie lo tratta in modo offensivo e sprezzante, tanto da trascorrere parte della notte nella tenda di Wilson. Umiliato, Macomber ritrova improvvisamente il suo coraggio durante la caccia ai bufali. Se ne accorgono tutti: Wilson, che arriva ad ammirarlo, e anche Margaret. Sarà proprio quest’ultima che, forse per incidente, ma forse no, sparerà nella schiena al marito durante un’ultima carica dei bufali.

Wilson non sembra credere all’innocenza della donna. «Proprio un bel lavoretto» disse con voce monotona: «Stavolta l’avrebbe lasciata.» E poi: “Perché non lo ha avvelenato? In Inghilterra si fa così.»

Hemingway tratteggia i tre personaggi in modo vivido, reale e approfondito, utilizzando poche parole decise. Di Margaret, per esempio, fa dire a Wilson:

Aveva un volto ovale perfettissimo, così perfetto che la credevi un’oca. Ma un’oca non era, pensò Wilson, nossignore, non era affatto un’oca

Di Wilson si è detto che fosse un autoritratto di Hemingway. Una delle caratteristiche del cacciatore era il fucile: un Gibbs 505, corto, brutto e con la canna grossissima. Senza voler fare gli psicanalisti da due soldi, forse si possono ritrovare pezzi di Hemingway in tutti e tre i personaggi in scena.

La donna è chiaramente il personaggio più interessante: finta preda e alla fine cacciatrice, echeggia in qualche modo il rapporto non proprio idilliaco che Hemingway ebbe con la madre, Grace Hall Hemingway, musicista e concertista.

Lo scrittore, in età adulta, disse chiaramente di aver provato sentimenti di odio nei confronti della genitrice, anche se il suo biografo Michael S. Reynolds sostiene che il figlio avesse lo stesso tipo di energia e di entusiasmo che la madre esprimeva. Hemingway odiava le lezioni di violoncello cui Grace lo obbligava, anche se più tardi ne riconobbe l’utilità nella successiva carriera di scrittore.

Il padre Clarence, medico, insegnò a Ernest a cacciare, campeggiare e pescare, instillandogli la passione per l’avventura e gli spazi aperti. Ma il padre, come più tardi il figlio, si suicidò, probabilmente per un dissesto finanziario, utilizzando un’arma appartenuta al proprio padre, che aveva partecipato alla guerra di secessione. Ernest gli aveva appena scritto una lettera promettendo aiuto per far fronte ai problemi finanziari, ma la lettera non giunse in tempo.

Come un funerale

Kurt Cobain aveva nove anni quando i suoi genitori divorziarono. Bambino dolce e ricco di inventiva, cambiò carattere di fronte alla separazione. In un’intervista del ’93 spiegò:

Ricordo di essermi vergognato, per qualche motivo. Mi vergognavo dei miei genitori. Non riuscivo più a guardare in faccia i miei compagni di scuola, perché volevo disperatamente avere una famiglia classica, tipica. Madre, padre. Volevo la sicurezza, così sono stato arrabbiato con i miei genitori per qualche anno

Un Kurt Cobain “conservatore” e sostenitore della famiglia tradizionale, insomma. Chi lo avrebbe detto? A dire il vero i genitori non si comportarono sempre in modo impeccabile.

Il padre promise di non risposarsi e si sa che una promessa fatta a un bambino è scolpita su pietra. E invece si risposò ed ebbe anche un figlio dalla nuova moglie, mortificando i sentimenti da figlio unico di Kurt. La madre invece iniziò a vedersi con un tizio che la picchiava e ne era tanto infatuata da rifiutare di denunciarlo anche quando lui le spezzò un braccio.

Così iniziò un’adolescenza fatta di rifiuti dell’autorità, bullismo esercitato e subìto, affidamento a una famiglia di cristiani rinati (ne parla proprio nella già citata Lithium), perfino un periodo in cui finse di essere gay per fare sì che la gente lo tenesse a distanza.

Le uniche porte di uscita si rivelarono da una parte la musica, e dall’altra marijuana, LSD, ossicodone, eroina. Anche l’alcol era un discreto compagno. Il primo tentativo di suicidio arrivò nel marzo del ’94 e fu il frutto di una combinazione, se vogliamo anche ironica, tra champagne e Roipnol.

C’è stato un momento, uno solo, in cui poteva sembrare che la vita di Kurt potesse avere, se non un finale allegro, almeno la possibilità di una continuità nel tempo. È stato durante l’Mtv Unplugged, il concerto acustico che Mtv, quando era ancora una televisione dedicata alla musica, proponeva agli artisti più in vista del momento, consentendo loro di suonare le proprie canzoni nude e crude, chitarra, voce e poco altro.

Visto dall’esterno quel concerto fu una perla assoluta, con qualche sbavatura, ma anche vero, intenso, con una scaletta per niente banale: Kurt decise di non eseguire i brani più celebri, nemmeno Smells Like Teen Spirit, mettendo insieme una scaletta di quattordici brani di cui ben sei cover, nemmeno tutte proprio illustri, a parte la clamorosa The Man Who Sold the World, che fece sbalordire anche il legittimo proprietario, David Bowie.

Era una finzione, naturalmente: Kurt era in astinenza e aveva vomitato fino a pochi minuti prima di salire sul palco, quando era riuscito a farsi. Aveva voluto un palco decorato con candele nere e gigli orientali. “Come un funerale?” gli chiesero dalla produzione. “Esattamente”, confermò.

Aveva litigato con la casa discografica fino al giorno prima, rifiutando la pretesa di affiancargli Eddie Vedder o qualche altra star per rendere lo spettacolo un evento televisivo a tutto tondo. Kurt era tanto sicuro di quello che voleva quanto insicuro di reggere la tensione. Volle “tutte le persone cui voleva bene” in prima fila, pronte ad applaudirlo qualunque cosa fosse successa.

Eppure poteva continuare così. Poteva costruirsi una maschera, fare quello stravagante, indulgere ai tratti più funebri della propria personalità, trasformarsi davvero in rockstar, da anti-rockstar quale era, in modo ormai evidente a tutti.

Avrebbe potuto aderire alla teoria dell’iceberg. Tenere tutto nascosto, regalando in superficie qualcosa delle proprie emozioni. Sarebbe bastato indossare una maschera. Non lo facciamo tutti? Be’, forse non tutti. Di sicuro non Kurt.

Il vecchio sognava i leoni

Anche chi si suicida pensa a se stesso e a come sarà da vecchio. Immaginare fa parte della natura umana quanto respirare. A volte ci si immagina da vecchi e non si apprezza l’autoritratto.

Ma forse non è stato questo il caso di Hemingway. Lo si può immaginare con una certa precisione perché c’è un autoritratto da vecchio che ci ha lasciato. Certo il panorama non è quello di Ketchum, Nothing. E neanche quello di Madrid. C’è il sole, perfino troppo, ma c’è il mare e ci sono i pesci. Non ci sono fucili.

È Il vecchio e il mare. È un uomo troppo avanti nell’età per lottare, troppo stanco per combattere. Eppure combatte e vince perfino. Si informa dei risultati dei New York Yankees, affila il coltello, guerreggia con gli elementi e lotta con i pesci. Anzi con il pesce, el Tiburòn, fino a sconfiggerlo, pur provando una grande pena per lui.

Sarebbe stata questa la conclusione più logica del discorso, la più avventurosa ma anche la più saggia, la più immersa negli elementi che conosceva da vicino per averli voluti vivere sulla propria pelle, senza risparmiarsi. Non gli elettroshock, la malattia, la paranoia e le montagne, inutili, dell’Idaho.

Del resto, sempre nella citata introduzione dei Quarantanove racconti, scriveva:

Andando dove devi andare, e facendo quello che devi fare, e vedendo quello che devi vedere, smussi e ottundi lo strumento con cui scrivi. Ma io preferisco averlo storto e spuntato, e sapere che ho dovuto affilarlo di nuovo sulla mola e ridargli la forma a martellate e renderlo tagliente con la pietra, e sapere che avevo qualcosa da scrivere, piuttosto che averlo lucido e splendente e non avere niente da dire, o lustro e ben oliato nel ripostiglio, ma in disuso. Adesso è necessario rimettersi alla mola. Mi piacerebbe vivere abbastanza per scrivere altri tre romanzi e altri venticinque racconti. Ne conosco di bellini

Mentre i turisti arrivano a meravigliarsi della coda ben fatta del pescecane e ad annunciare un mondo ormai scomparso, il vecchio, (Hemingway da vecchio), torna a casa da vincitore, racconta la propria storia al suo giovane amico e aiutante. Poi si addormenta.

In cima alla strada, nella capanna, il vecchio si era riaddormentato. Dormiva ancora bocconi e il ragazzo gli sedeva accanto e lo guardava. Il vecchio sognava i leoni

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