Hibou Moyen, “Lumen”: recensione e streaming

Prosegue l’evoluzione di Hibou Moyen, cantautore (piuttosto) intimista che pubblica Lumen, il nuovo lavoro. Un disco che apre le porte a sonorità pop-psichedeliche e a un certo cantautorato italiano anni ’60, mantenendo una forte inclinazione per il folk di oltreoceano che aveva caratterizzato i due lavori precedenti.

Dopo la collaborazione con Umberto Maria Giardini nella produzione di Fin Dove Non Si Tocca, Giacomo Radi prende le redini del suo nuovo percorso vestendo i panni di produttore artistico avvalendosi della collaborazione di Andrea Duna Scardovi.

Hibou Moyen traccia per traccia

L’album si apre sulle note di un Uragano gentile: il brano è stato scelto anche come singolo e trasmette alcune caratteristiche piuttosto definite, soprattutto un collegamento sempre presente con la canzone d’autore americana.

Collegamento che però si manifesta anche nella parte più acida e vibrante: per esempio Gli scheletri delle comete affianca suoni dolci e altri molto più elettrici, giocando su contrasti e sensazioni vivide.

E via di organo per aprire Bambina Vipera, pezzo dal carattere aperto, capace di suggerire umori differenti e di accostare gli elementi sonori in modo costruttivo. “La morte non santifica nessuna verità”.

Si va in acustico per aprire Ogni buio, che poi sviluppa tendenze di altro carattere, alzando un po’ la voce ma senza mai esagerare.

L’eruzione è un brano del disco ma è anche l’ennesima conferma che ormai di rivoluzione si può parlare soltanto sottovoce e in modo intimo e pacato, in questo caso con l’ausilio del pianoforte.

Strumento che apre anche Era estate, pronta però ad allargarsi a sonorità più vaste, con gli archi che intervengono ad ammorbidire il panorama.

Cresce poi la Ruggine dei campi, che avvolge le corde della chitarra e fa pensare al songwriting americano, in stile Sufjan Stevens e compagnia. Immagini campestri e amorose a colorare una canzone morbida e graziosa.

“Il buio fuori e il resto della notte dentro”: Serotonina gioca con la chimica e con il drumming, accumulando e scaricando tensioni su un brano che arriva a ondate. Finale che fa pensare agli Afterhours.

Si torna al folk con Martha, che racconta “l’amore dei perdenti” che ha persino paura di esistere. Ma tra fantasmi, funerali e minacce di “ritorni” post mortem si disegna una ballata sorprendentemente leggera.

C’è della rabbia in Avaria, che parla di assenza, si arriccia su suoni rock, ma inserisce anche il Rhodes a suggerire linee più morbide e consolanti.

Chiusura in toni tranquilli ma minacciosi, con La preghiera dei lupi, che si ricollega idealmente ai toni e ai modi dell’esordio, di qualche anno fa. Ballata per “cristi appesi a sanguinare”, con vaghe ombre psichedeliche proiettate sullo sfondo.

Ha deciso di fare da solo anche a livello di produzione, Hibou Moyen, ma è difficile non intuire quello che ha imparato dal produttore precedente, anche a livello di suono e di cantato.

Fatto sta che nel disco si trova una maturità e una completezza che prima si intuivano soltanto e in potenza. Invece le undici tracce si sono arricchite, arrotondate, hanno elementi in più e raggiungono un valore e un livello molto pieno.

Genere: cantautore

Se ti piace Hibou Moyen assaggia anche: Umberto Maria Giardini

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