canto-antico-fico-a-dicembreSu TraKs la musica “etnica” non passa spesso, anche perché personalmente penso che non esista e che esprima anche un’idea vagamente razzista (è un concetto del tutto relativo: se per un americano il fado portoghese o il tango argentino sono “etnici”, altrettanto dovrebbe esserlo per un portoghese o un argentino il rock, il blues, il country del Tennessee, ma nessuno ha mai definito “etnico” il country).

Può capitare che passi il folk, che invece può avere tantissimi colori e origini diverse, tutte con la stessa dignità. Ma raramente passano band folk come i Canto Antico, napoletani d’origine ma trapiantati a Milano, impegnati sì nella riscoperta delle proprie origini, ma senza dimenticare che si vive nel 2014.

La band ha alle spalle dischi e riconoscimenti a pioggia, ma questo South Beat rappresenta una svolta perché accanto ai brani della tradizione si allineano anche composizioni scritte ad hoc.

Si parte con Fico a Dicembre, in cui le voci e i suoni ci trasportano già nel’universo di riferimento, un misto di sud, oriente e beat di varia provenienza, senza chiedere con troppa fiscalità il passaporto alle buone idee.

Sanghe mette in fila ritmi diversi, ora più veloci ora più lenti, e si segnala anche per un flauto dal sapore progressive: la struttura del brano è molto articolata e sorretta dalla fisarmonica.

Molto più “popolare” Gallina, che ripropone un motivo tradizionale stravolgendone le sonorità, disassemblandola e riassemblandola in maniera differente: succederà con altri tre brani nell’arco del disco.

Un ottimo giro di basso dà il via a Cunta Lu Jentu, sommesso e inquieto percorso, mentre Fontanelle disegna evoluzioni più complesse e articolate, utilizzando al meglio tutti gli strumenti a propria disposizione.

Carpino Revolution, che apre con la ben nota citazione di Gil Scott-Heron “the revolution will not be televised” si dipana su ritmi medio-veloci e suoni dal sapore orientale.

A seguire un classico di Modugno, Malarazza, che è resa con rispetto ma anche con vitalità, senza esagerare con le innovazioni, ma anche senza dimostrarsi schiacciati da cotanto nome.

Aremu Rindineddha appare maggiormente placata come ritmo e dolente nell’interpretazione rispetto alle precedenti, con la fisarmonica a tracciare la strada insieme alla voce.

Si torna all’Oriente con Me Vulesse Addurmì, in cui tarantella e trip hop vanno allegramente a braccetto; si chiude con la nota Cicerenella, di cui si mettono in evidenza anche gli aspetti ironici, senza perdere di vista la sostanza di un pezzo di grande ricchezza.

La ricerca, la riscoperta e la rilettura della tradizione è un percorso su una lama di spada: troppo facile mettere un piede in fallo, scadere nel nostalgico o, peggio, nell’involontariamente parodistico.

Le canzoni popolari hanno linguaggi e idee che non sono nate per l’oggi, ma lo sforzo dei Canto Antico è trasparente: non considerano morti questi brani, sepolti dalla polvere, ma ne colgono gli aspetti vitali e li accompagnano con idee nuove di pari dignità.

Il risultato è un disco molto omogeneo e generoso in termini di creatività, per niente “vintage”, rispettoso ma anche sfrontato ove serve, eseguito con totale consapevolezza e padronanza dei propri mezzi.

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