Un progetto un tantino stravagante: realizzare un disco facendosi scrivere i testi dagli ospiti della struttura di residenza per disabili mentali “Le Radici” di San Savino.
Stravagante ma realizzato, da Franco Naddei in arte Francobeat: il risultato è appunto Radici (qui la nostra recensione), disco uscito di recente. Ecco la nostra intervista.
Puoi raccontarmi che cosa è successo dopo “Mondo fantastico” nella tua vita e nella tua carriera?
Una domandina facile-facile!
Devo fare un po’ di ordine, aspetta…Cominciamo così: “Mondo fantastico” è stato per me un progetto molto ambizioso, lo dimostra la confezione formato libro+cd che non è risultata proprio snella seppur fosse quello che volevo, un bell’oggetto anche da leggere.
Quel lavoro mi ha consumato parecchio, anche in senso positivo. Di quello di cui il disco parla, di come inspiegabilmente da adulti ci si inaridisca alle cose del mondo tralasciando un po’ il lato fantasioso e fantastico delle cose, mi ci sono trovato infilato dentro per vari motivi. Ma questa è un altra storia.
Un grande stimolo per ricominciare è stata la lavorazione del terzo disco (Navi) dei “Santo Barbaro”, formazione in cui milito dal 2010 e con cui stiamo pubblicando il quarto lavoro “Geografia di un corpo”.
Nei “Santo” sfogo tutta la mia energia di spippolatore elettronico e velleità di produttore. Mi piace molto lavorare ai dischi di persone che stimo.
Infatti in questo periodo ho realizzato anche due dischi per “Moro & the silent revolution”, formazione che fa capo a Massimiliano Morini, felicissima penna in lingua inglese che sta riscuotendo ottimi riconoscimenti anche all’estero.
E parlando di sonorizzazione ho avuto il piacere di lavorare a “The Dead”, uno spettacolo teatrale – performance, liberamente ispirato al celebre racconto di Joyce, della compagnia di teatro sperimentale forlivese “Città di Ebla”, che mi ha portato anche a Londra e Berlino.
Poi i dischi di Hugo Race & the Fatalists, fino alle recenti collaborazioni con Giacomo Toni (altro grande cantautore delle nostre parti) e John de Leo nel suo nuovo disco “Il grande Abarasse” uscito per Carosello proprio questo mese. E probabilmente sto dimenticando qualcosa!
Io vivo e campo di musica da ormai vent’anni, e quando parlo di “vita” spesso coincide con quel che faccio come lavoro, che è anche una grande passione oltre che una fonte pressoché inesauribile di incontri e stimoli.
La base operativa di tutto è il mio studio di registrazione nelle campagne forlivesi, si chiama “Cosabeat”, ed è un posto magico. Sono immerso nel verde, e vivo in una specie di stato di protezione dall’esterno in cui spesso mi rifugio per creare, pensare e far incontrare persone, incrociare le storie.
Questa Romagna è densa di ottimi musicisti e grandi artisti. Mi sento fortunato a essere continuamente in mezzo a situazioni stimolanti, e rispondendo alla tua domanda me ne sono reso conto ancora meglio!
Parlare di “carriera” mi fa quasi strano. Non ho mai capito bene quanto stia costruendo con una strategia, per come sono e come mi pongo, il più possibile schietto e sincero, mi rendo conto di aver fatto moltissime cose di cui posso sicuramente andare fiero e che hanno allungato si il curriculum, ma che soprattutto mi hanno fatto crescere, come “artista”, come produttore, come musicista e tecnico del suono.
Il tutto senza tralasciare che ho uno splendido bambino di 7 anni che si trova a suonare e crescere nella musica, e spero gli faccia tanto bene.
Come nasce il progetto “Radici” e quali sono state le tue sensazioni quando si è affacciato?
E’ ormai storico questo incontro fatto a Santarcangelo di Romagna durante uno dei concerti di “Mondo fantastico”. In quella incontro Elisa Zerbini che lavora con disabili mentali e mi propone di musicare delle cose che avevano scritto assieme agli ospiti della residenza psichiatrica “Le radici”, per l’appunto.
La frase con cui mi avvicinò (“sei abbastanza fuori per fare qualcosa con noi”) mi ha fatto sempre sorridere e la riporto ormai in ogni intervista. Il mio modo di fare i concerti, parlando molto, cercando di comunicare il più possibile senza essere pesante, mi permette di raccontare un po’ delle cose che io stesso ho scoperto nelle ricerche e letture legate ai miei lavori.
Dico che faccio “pop da biblioteca” perché credo ci siano molte altre bellissime parole già scritte da poter cantare. Il fatto che questa volta siano stati dei “matti” a scriverle chiude una specie di cerchio.
La mia ricerca della libertà di espressione, della sincerità e della fantasia dell’atto creativo trova, con queste persone, un apice. Prima ho cercato di mescolare la mia scrittura con quella dei capelloni anni ’60 e dei grandi pensatori di quel periodo, poi sono passato per Rodari e il suo modo di scrivere così adultamente infantile.
I testi di “Radici” sono qualcosa che incontra tutte le mie esperienze passate passando per un binario di follia autentica, e non di maniera. Sono rimasto molto colpito sin dai primi scritti. C’era il lato folle ma anche una spietata lucidità. Non credevo ci fosse una tale consapevolezza della condizione di follia da parte loro.
Inizialmente sono arrivate anche piccole storie, di cui poi finita nel disco “Il pupazzo di neve”. In questa storia ho trovato un po’ l’essenza di tutta la poetica di “Radici”: inizia con l’immagine della neve, del bianco e dei bambini che giocano felici, per arrivare ai corvi nevi che oltretutto sciolgono il pupazzo di neve che diventa un “fantoccio nero”.
Dal bianco al nero in poche righe. In molti testi è venuto fuori questo sforzo di partire da qualcosa di bello che è però fragile e pronto a frantumarsi alla minima occasione. Io non so cosa passi per la testa a queste persone, ma hanno saputo descriversi con una lucidità e una onestà disarmante che neanche a tanti “normali” riesce.
Quando ti scrivono: “le mie meraviglie non sono poi tante, ma sono il mio carburante” sanno dire qualcosa di profondo e tagliente in maniera poetica e diretta. Io credo di essere stato molto fortunato a poter cantare le loro parole e quel che ne è uscito musicalmente è stato per me un modo nuovo di comporre.
Ho usato formule semplici, pochi accordi al servizio della loro scrittura irregolare, e tentando di dare forza a quelle frasi che più davano il senso ai singoli brani mi son ritrovato con delle canzoni che altrimenti non avrei scritto.
Non ci sono veri e proprio ritornelli e nonostante questo ho potuto giocare coi linguaggi del pop senza preoccuparmi troppo se fosse scontato o già sentito. L’importante per me era che i testi fossero resi al meglio, che non si facessero troppi sconti se l’atmosfera da rendere fosse narcotica, malinconica, romantica ma anche rockettara e danzereccia!
Hai avuto diffcoltà a lavorare con gli ospiti del centro “Le Radici”? E loro hanno avuto difficoltà con te?
Perché difficoltà? Ci sono stati incontri, e gli scontri non li ho vissuti certo io! Immagino l’impegno e la pazienza degli operatori de “Le Radici” nel cercare di far progredire il lavoro di scrittura, che io del resto non ho mai forzato.
Mi sono limitato a suggerire un approccio rodariano, consigliando di sbirciare dentro “Grammatica della fantasia”, un piccolo prontuario che lo scrittore di Omegna scrisse per gli insegnanti e tutti gli adulti per poter allenare la fantasia come fosse un muscolo.
Ci sono voluti due anni di tempo sia per capire come impostare la cosa a livello generale, sia per scrivere concretamente i testi. Volevo che scrivessero solo se realmente ispirati, come è riservato ai veri artisti!
Loro hanno abitualmente scritto in collettiva, nelle loro uscite o nei giorni passati alla residenza. Molte cose non ho potuto metterle non perché non meritevoli, ma per bilanciare un po’ tutto quello che stava venendo fuori.
Mi sono arrivati veri e proprio sfoghi, come storie davvero stralunate. Magari le pubblicheremo sul web, prima o poi. E’ chiaro che ci sono episodi molto forti soprattutto quando raccontano della parte difficile del loro rapporto col disagio che provano, ma ci scherzano anche sopra, e non è un pensiero da poco per chi è in quelle condizioni di vita.
Sono andato a trovarli per provare le canzoni, fargliele cantare e trovare altro materiale possibile. Ho subito cercato di interagire con loro, ma non è stato proprio semplice. Ogni volta che chiedevo qualcosa di specifico era quasi un fallimento, se non godersi la deriva della richiesta stessa e ricevere tutt’altro.
E’ successo quando sono andato da loro per registrare voci e manipolarle in tempo reale per farne qualcosa di vicino alla musica contemporanea, tanto per non farsi mancare nulla! In quella non sapevo come avrebbero reagito sentendo le loro voci trasformate e usate come materiale sonoro.
Alla fine loro stessi mi hanno fornito la chiave del pezzo (“Questa è la mia voce”) e hanno cominciato a cantare tutti, per poi cantare qua e là un “questa è la mia voce” a loro modo, chi urlando, chi facendo finta di essere un cantante lirico.
Ecco, quello è stato un bel momento, capisci che hanno bisogno di uscire dal torpore dei farmaci, e la musica è certamente un qualcosa che fa sentire vivi, sia se l’ascolti sia se la fai.
Poi tutto quello che hanno scritto racconta un po’ la storia della nostra interazione, là dove dicono che “il manicomio diventa una barzelletta e tutti parlano a strofetta”, o “caro amico Franco, ti offriamo un vin santo, se ci aiuti a trasformare in canzoncelle, tutte queste note belle” capisci che stai facendo qualcosa con loro, e per loro.
Mi son sentito utile, e sono stato bene ogni volta che mettevo mani ai loro pezzi. Spesso nel fare un disco uno vive anche fasi preoccupate, se non stressanti. A me è sembrato tutto leggero e spontaneo, contagiato da quei testi che in realtà di spensierato hanno ben poco.
Come hai scelto gli ospiti del disco e come hanno preso questa avventura?
Anche qui le scelte sono naturali. Diciamo che ho coinvolto le persone amiche che ho frequentato durante la lavorazione del disco.
Poi alcuni incontri si sono consumati proprio registrando le canzoni di “Radici”, come è successo nel caso di Giuseppe Righini e il Moro (Massimiliano Morini) che non si conoscevano e che ho fatto incontrare proprio per le loro diverse personalità.
Recentemente ho cominciato a collaborare anche con Giacomo Toni, che conosco da molto tempo, che a sua volta ha fatto parte dei “Santo Barbaro” il progetto di Pieralberto Valli (in cui ancora oggi ho il piacere si esserne parte integrante).
A loro ho proposto di fare questo testo “Io ero bellissima”, che nonostante il titolo porta il punto di vista sia dell’uomo che della donna in un viaggio onirico che parla d’amore, disillusione, e dello sfiorire delle cose e della bellezza nella nebbia più totale.
In entrambi questi due pezzi ho notato che anche chi è stato chiamato a render musica su queste liriche, si sia trovato quasi obbligato a lasciarsi andare alla prima cosa che gli veniva in mente come è capitato a me, magari ho fatto solo da “regista”, ma poi si è convenuto fosse sempre la cosa migliore.
Una specie di magia, oltre che un divertimento. Nei Sacri Cuori suona Diego Sapignoli con cui ho suonato e registrato tanto, c’è Antonio Gramentieri con cui ho migliaia di ore di studio alle spalle su progetti di varia natura, e Francesco Giampaoli che alla fine si è trovato a suonare in qualche pezzo fino a far la parte del “discografico” in quanto co-fondatore di “Brutture Moderne” l’etichetta per cui è uscito “Radici”.
Il sound dei Sacri Cuori è a me ben noto, un brano in particolare l’ho ri-arrangiato per loro (“Che cambino le cose”) e non hanno per niente deluso le aspettative! Nello stesso brano compare anche John de Leo, con cui collaboro da tempo e che non ero mai riuscito a portare in un disco mio.
Ha scelto lui il pezzo, ovviamente quello a cui non avrei mai pensato un suo intervento in maniera prioritaria, ma il suo intervento è stato determinante, ed un onore avere la sua voce in questo progetto. Sempre ai Sacri ho affidato “Carmencita” , il primo pezzo che ho scritto per “Radici” e che ho avuto la fortuna di sentire cantare sin dall’inizio dagli ospiti della residenza.
I “Sacri” han dato una impronta più matura al pezzo che nasce gioioso nella sua dichiarazione d’amore romanticamente ingenua qual è. Tra l’altro nel pezzo partecipano anche Silvia Valtieri al piano, che mi accompagna anche dal vivo, e suo fratello Francesco al sax baritono. Ho anche riunito una famiglia!
Poi Valeria Caputo ha dato forma a quello di cui parlavo prima, alle parti manipolate e campionate da me alle Radici facendole diventare una composizione vera e propria. Con lei sto lavorando al suo nuovo disco che guarda molto al linguaggio della musica elettronica, per cui mi sembrava la persona adatta, sia per competenza che per sensibilità.
All’inizio pensavo che avrei fatto un disco rapidamentente e da solo, ma poi ho capito che stava trasformandosi in qualcosa che meritava molta attenzione e partecipazione. Condividere questa esperienza è stato un piacere, sapevo che si sarebbero divertiti e stupiti tutti del risultato finale. E così è stato!