Il loro ‘Na Storia ha vinto il premio per il Disco del Mese su TraKs per maggio e si è trattato di un riconoscimento decisamente meritato: l’esordio dei NiggaRadio è bruciante, sorprendente e ricco di energia (qui la recensione). Ecco come hanno risposto alle domande della nostra intervista.
Mi potete raccontare la storia della vostra band e come vi è venuta l’idea di coniugare blues e testi in dialetto siciliano?
All’inizio l’idea, partita da Daniele e Andrea, era quella di coniugare la tradizione del blues rurale con un’elettronica basilare. Il ritmo di due mondi/modi simili per cantare esorcizzare dolori e disagi della vita. Più un progetto che un gruppo.
L’occasione di diventare band è frutto di una serie di circostanze particolari che sembrano quasi un “disegno” per arrivare sin qui. Un periodo di pausa nel lavoro di produttore di Daniele, l’incontro con Peppe Scalia e last but not least la scoperta e “l’arruolamento” di Vanessa Pappalardo dopo che un’altra vocalist non si era resa disponibile, un segno del destino, visto il suo contributo.
Un festival, il “Rigenera” nella splendida cornice del parco dell’Etna ci ha tenuto a battesimo poco più di un anno fa ( il 1° maggio) ed eccoci qua. Quanto al dialetto crediamo che una musica per diventare “internazionale” debba avere una radice, la nostra sta nel nostro suono e nel nostro dialetto.
“’A Matina” racconta una storia di lavoro precario, a sottolineare i parallelismi tra schiavitù di ieri e di oggi. Come nasce la canzone?
Hai colto perfettamente il senso della canzone, ne siamo felici. Veniamo da una parte del paese ( come molte altre parti del mondo) dove il divario fra le classi sociali, la famigerata forbice, si allarga sempre di più.
A pensarci bene non sappiamo cos’è peggio, se essere un bracciante in un latifondo nell’Ottocento o un sotto occupato che non arriva a fine mese, in un mondo che mostra e offre cose che non potrà mai avere.
Potete raccontarmi qualcosa dell’omaggio a Rosa Balistreri attraverso “Cantu e Cuntu”?
Siamo musicisti, cantiamo cercando sempre di dire, raccontare, cosa tipica dei cantori del blues come Robert Johnson, Skip James e anche della nostra Rosa Balistreri. Lei è il nostro Robert Johnson, voce del popolo, forza pura e questa canzone è una sorta di manifesto di cosa crediamo debba fare la musica.
Avete pubblicato una dettagliata scheda tecnica della strumentazione che avete utilizzato per il disco. In anni in cui moltissimo si può produrre o riprodurre in modo sintetico, che impatto ha ancora la perizia tecnica e la cura dei dettagli (soprattutto analogici) per voi?
Possiamo mandarti una mail con un computer, spedirti dei file, chattare con una persona dall’altro lato del mondo e questo è bello, ma… ma la cura dei dettagli di cui parli è proprio all’inverso…
E’ Il lavorare, come dici, in modo “sintetico” che fornisce un controllo eccessivo sui particolari tale da rendere tutto finto, “artificiale” e che in più cerca di nascondere la mancanza di “perizia tecnica”.
Saper microfonare gli strumenti, piuttosto che “scordare” in modo giusto un tamburo, cantare in tre takes invece che sillabando e montando le parole, immaginare un suono e inseguirlo attraverso il mondo reale con la scelta degli strumenti, la posizione nella stanza dove registrare, il guardarsi in faccia mentre si suona, missare il disco su un banco analogico, tutto questo per noi è imprescindibile.
L’onanismo musicale che è rappresentato da chi solo davanti al suo pc traccia linee su uno schermo è in antitesi con quello che noi pensiamo sia il fare musica e la presenza della parte elettronica nel nostro suono serve a far risaltare maggiormente la parte più analogica, suonata, umana.