Si presenta così: “sono una specie di songwriter blues”. Matt Confusion, da Monza, nel 2011 ha iniziato un nuovo progetto solista, passando a un sound “notturno”: chitarra, voce e canzoni contenute nell’album Satori, Take Me Away, pubblicato nel 2014. Lo abbiamo intervistato.
Hai un passato in una band, perciò come nasce l’idea di comporre ed esibirti da solista?
Sono stato chitarra e voce dei Confusion Is Next per 6 anni. Quando la band alle fine del 2010 si è bruscamente sciolta mi sono reso conto di quanto tutto il ‘contorno’ non strettamente musicale del suonare in una band mi stesse allontanando dalla musica stessa e dal piacere di farla.
In quel momento non avevo alcuna voglia di rimettere in piedi un’altra band e ne avevo abbastanza anche del genere che avevo suonato fino ad allora, l’alternative rock.
Nel frattempo avevo scritto delle canzoni in uno stile completamente differente e ho deciso di viverla in maniera più semplice e arrangiarmi da solo: registrare in casa e suonare dal vivo.
Hai scelto un abito molto “minimal” per le tue composizioni: quali sono i motivi?
Mi piace l’idea che la mia musica sia naturale, a dimensione umana.
Quando sei solo e stai scrivendo una canzone – che tu abbia una band o no – sei tu e la tua chitarra, e non hai bisogno di niente altro.
Da chitarrista ho incominciato a invidiare gli altri musicisti, che non spendono più tempo a preoccuparsi di effetti, amplificatori, modifiche allo strumento che a suonare… che quando arrivano sul palco prendono il loro strumento e iniziano, senza grandi preparativi.
I chitarristi blues nei vecchi filmati della Seattle Folklore Society si esibivano da soli eppure suonavano completi, e avevano solo la loro chitarra e la loro voce.
Allora ho notato che se avevo dei limiti – solo la voce, la chitarra, il cavo, l’amplificatore – mi concentravo di più sull’esecuzione e sul dare un senso a quello che suonavo; e anche nello scrivere una canzone dovevo cercare un modo tramite gli accordi di evidenziare il movimento del basso e di dare spunti della melodia che la voce stava cantando… quindi ho deciso di proporre la stesso modo di suonare semplice che si ha in casa, in privato, sul palco.
Nelle versioni registrate per il disco viene comunque integrato da qualche sovraincisione perché è un ascolto un po’ diverso, però la natura rimane quella.
Quali sono i tuoi punti di riferimento musicali?
La prima grande ossessione che ho avuto fin da bambino sono stati i Beatles. Primo disco comprato: “The Beatles 1967-1970”, la compilation blu, in doppia musicassetta; la registrazione della riduzione per Raidue di The Beatles Anthology su VHS (con un terrificante primo episodio doppiato da Chiambretti e Frizzi) l’ho imparata a memoria.
Sono stati i Nirvana a spingermi a suonare la chitarra e formare una band; ai Sonic Youth devo altrettanto, a partire dal nome della mia ex band e, per derivazione, il mio nome adesso.
A questi aggiungo le mie influenze più attuali: Miles Davis, il chitarrista jazz Grant Green e il chitarrista acustico Michael Hedges.
Più un altro centinaio di altri dischi di jazz, blues, rock eccetera eccetera…
Di che cosa parlano i tuoi testi e da che cosa trai ispirazione?
Dipende dalla canzone. Mi piacciono le canzoni che raccontano una storia, anche incompleta, come se il testo e la musica. Se la musica ha un’atmosfera notturna allora sarà una storia un po’ noir, e così via.
Mi piace pensare di creare dei personaggi con dei dialoghi all’interno del testo. Ci sono tre cose a cui tengo molto: che la metrica si incastri perfettamente, che il testo sia coinciso e che il linguaggio sia semplice e naturale.
Una cosa che non sopporto è la tendenza di oggi a fare testi che usano un finto linguaggio ricercato per poi non dire nulla di concreto.
Perché una tua versione del “traditional” St. James Infirmary?
Ho messo insieme una mia versione di questa canzone dopo avere ascoltato una delle sue più recenti incarnazioni su un disco di Hugh Laurie, “Let Them Talk”, ed è stata una dei primi pezzi che ho suonato come solista e che trova sempre spazio nelle scalette dal vivo.
E’ una canzone sulle cui origini si sono scritti libri anche se ufficialmente è una folksong tradizionale e anonima.
Diventa uno standard blues e jazz negli anni 30; viene usata in un allucinante cartone animato di Betty Boop, cantata da Cab Calloway, e di generazione in generazione è arrivata fino ad oggi. Deve avere per forza qualcosa di speciale.
[bandcamp width=350 height=470 album=1678094353 size=large bgcol=ffffff linkcol=0687f5 tracklist=false]