Testo, foto e video di Fabio Alcini
Vuoi sapere tutto, ma proprio tutto dell’edizione 2018 del MEI – Meeting degli Indipendenti? Non puoi. Nel senso che questo tipo di manifestazioni è aperto, dispersivo, per sua natura espanso su molti livelli diversi e perciò o hai una redazione di dieci persone dedicata esclusivamente all’evento, e TRAKS non è (ancora) arrivato fin lì, oppure te ne devi fare un’idea generale.
Per quanto difficile comunque abbiamo fatto delle scelte e abbiamo deciso di darti un’idea concreta di quanto è avvenuto soprattutto sul palco centrale nella sera di sabato 29 settembre, obiettivamente il clou della manifestazione.
Certo questo ha significato escludere eventi notevoli, come Mauro Ermanno Giovanardi al Teatro Masini, che era in contemporanea agli Zen Circus in piazza del Popolo. Ma, appunto, bisogna fare delle scelte.
Perciò, dopo un primo pomeriggio dedicato al forum dei giornalisti (ove, si consenta la botta di autocelebrazione, lo scrivente è stato eletto nel direttivo della neonata Agimp, associazione nazionale dei critici e dei giornalisti musicali) e alle interviste a Lastanzadigreta e ai Ritmo Tribale che leggerai qui nei prossimi giorni, la sera è stata la volta dei concerti.
Alle 20, il palco centrale è occupato, con grande presenza sonora e scenografica, dai Figli dell’Officina, che aprono le danze: la loro storia siciliana si aggrappa alle radici grazie a fisarmonica, violino e moltissima energia, che traspare da Terra mia, Terra nostra che dedicano alla memoria di Peppino Impastato, doppiata presto da una dedica a don Pino Puglisi. Inizia anche la sarabanda dei premi (troppi? Troppi) con un riconoscimento agli Acid Blue.
MEI 2018: nuovi, antichi (e qualche problema tecnico)
È il turno de Lastanzadigreta, o almeno lo sarebbe se non ci fossero problemi elettrici, il che sembra un paradosso per una band che fa della ricerca di strumenti anche antichi una ragione di vita. Quando alla fine si riesce a partire la band propone la title track del proprio ultimo disco, Creature Selvagge, con grande esercizio di versatilità sonora. Il quintetto sembra superare di forza gli ostacoli anche in una versione quasi punk di Lisa (“Ci hanno detto che per uscire dal recinto dell’indie dovevamo scrivere una canzone dedicata a una donna e allora ne abbiamo scritta una su Lisa Simpson”).
Si sfuma nello psichedelico con Vita di Galileo, con theremin e un crescendo glorioso ma tranquillo. L’esibizione della band è da promuovere, problemi elettrici a parte, che peraltro introducono una lunga lista di soundcheck fatti al volo da tutte le band che seguiranno, tipici di un contesto come questo.
I Ritmo Tribale si presentano in un set inedito a due pezzi: Andrea Scaglia, voce e chitarra classica, Andrea “Briegel” Filipazzi al basso, e una drum machine, usata in modo costante ma senza esagerare con gli slanci. Il primo brano proposto è Lumina: ipnotica, a cerchi concentrici, dà il tono al set senza spingere troppo sull’acceleratore.
Infatti si prosegue con i ritmi della drum machine piuttosto sincopati anche con L’assoluto (da Mantra, a giudizio di chi scrive il capolavoro della band milanese). Il pezzo viaggia su toni molto aspri con la chitarra che prende il comando delle operazioni. Si arriva a Bandiere, ripescata da Bocca chiusa, disco d’esordio dei RT che compie trent’anni dall’uscita. Il pezzo propone una notevole forza percussiva e si dilata in lunghezza rispetto alla sintetica versione sull’(introvabile) disco.
Il set è reso un po’ paradossale dalla drum machine ma il carattere dei pezzi, qui sostanzialmente ridotto all’osso, emerge con forza. Del resto si parla di band di grande sostanza, fra quelle che hanno aperto la strada al rock indipendente degli anni Novanta, al netto di qualche tendenza autodistruttiva. E benché le ruvide virtù vocali di Scaglia escano in modo molto punk, la chiusura è di nuovo ipnotica con Sogna, altro estratto da Mantra.
Il pubblico è come al solito molto variegato: ci sono ragazzini che cantano David Bowie e i classici anni Settanta che gli amplificatori sparano nei momenti d’attesa; e persone più attempate che si esaltano per gruppi un attimo più recenti. Ci sono tante persone, soprattutto, e ce ne saranno tante fin quasi alla fine, in una serata lunghissima, freschina ma con un clima tutto sommato gradevole.
MEI 2018: da Bennato a Colombre
Un filo anticlimatico, almeno in chiave indipendente, l’arrivo sul palco dei Motel Noire (ma poi perché noire? Motel è maschile. Mah) che si fanno accompagnare da un armamentario rock palesemente post-vaschiano, cantando di cieli senza nuvole tra assoli di chitarra assordanti, corna heavy metal e paraphernalia r’n’r assortite. Poi premi, premi, molti premi, quindi è la volta dell’artista più esperto della serata: Edoardo Bennato.
Che, quando suona e canta, dimostra di non aver perso neanche un giro. Apre con Abbi dubbi: solo sul palco, accompagnato dall’armonica a bocca e dalla chitarra, allestisce un one man show ritmato dalla grancassa che picchia con il piede (spiegherà che questo marchingegno gli ha “salvato la vita”). Signor censore invece lascia entrare due chitarre, fra gusti country e una certa rabbia ironica, che è la classica cifra stilistica del cantautore campano.
Bennato racconta del suo storico licenziamento dalla Ricordi e del suo faticoso e graduale rilancio. Ma non è tutto nostalgia: A Napoli 55 è a musica, brano con vasti lacerti di autobiografia, si presenta con una vasta consistenza rock-blues a reggere il recitato del brano.
Certo gli intenti declamatori e gli attacchi alle major (tutto sommato in tema con la manifestazione indipendente più grande d’Italia) pur del tutto motivati, debordano un po’ nel comizio e rallentano il ritmo di una manifestazione che, per definizione, ha poco tempo.
Dal punto di vista musicale magari lo show non contiene nulla di stravolgente o innovativo. Ma la sapienza di Bennato e delle due Gibson che lo accompagnano riesce a scaldare una piazza piuttosto gremita, non solo in attesa di ciò che arriverà dopo.
Pronti a salpare ha un’introduzione parlata di nuovo molto (troppo) lunga, che parte dai concetti dell’immigrazione come fuga dall’inferno per arrivare a un atteggiamento occidentale troppo preoccupato della propria pancia. Le immagini dei barconi nello schermo alle spalle del palco fanno da sfondo a un brano che però è morbido nei modi.
Tocca ai Celeb Car Crash, metà faentini e metà parmigiani, quindi di casa: arrivano ad alzare i decibel con un set metallaro e particolarmente robusto. Rovente l’intermezzo proposto dalla band, chiuso da una potente versione di Helter Skelter.
Ecco quindi Luca Bussoletti, probabilmente il primo a portare, almeno sul palco centrale, suoni che ricordano da vicino quelli che la musica italiana contemporanea sta accogliendo e spingendo sempre più in alto: la sua Correre gira su tastiere, un giro di basso, un cantato serrato, quasi rap, e un lessico che non possono non fare pensare all’Itpop.
Vetro mostra un groove sostanzioso per un pezzo leggermente più sofferto e foraggiato anche da una microbatteria quasi giocattolo. Italian story, che chiude, ha toni tra blues e funk, sempre mescolando cantato da cantautore e hip hop.
E si continua in tema con Colombre, che ritira (con entusiasmo non apparentassimo) la targa come miglior giovane e propone Pulviscolo. E c’è subito l’impatto: probabilmente è itpop, il che non vuol dire che non possa tirare pugni nello stomaco. Ma è il modo in cui Giovanni Imparato (vero nome di Colombre) strapazza la propria chitarra, la porta in giro, la fa roteare a colpire: come un vero guitar hero, che però dell’esibizionismo fine a se stesso non se ne fa nulla e preferisce la centralità della canzone.
Robusta la costruzione di Dimmi tu, che perde quei caratteri frizzantini serviti dal disco e dal video. Qui le canzoni sono nude, elettriche, provviste di denti, al limite con qualche boutade ironica: “un grande applauso alla mia band” chiede Colombre, solo e alto come un gasometro in campagna.
Arriva poi l’ottima Blatte, composta con l’aiuto di un altro strano come Iosonouncane e accolta dall’entusiasmo del pubblico. Un tantino di malinconia pungente poi si muta in rabbia, dissonanza, forza, imperfezioni, slabbrature, rancore, in una delle migliori performance della serata.
MEI 2018: finalmente Zen Circus
Quindi, quale miglior viatico per l’arrivo sul palco del gruppo più importante della serata, quello per il quale la maggior parte dei presenti si è mobilitata? Ufo, Appino e compagni prima ritirano il premio MEI come artisti dell’anno, poi salgono sul palco a spiegare perché gli Zen Circus sono gli artisti dell’anno.
Non sono tantissime le canzoni che sono loro concesse, benché sia abbastanza palese che il pubblico ne vorrebbe molte di più. Ma questo limite si trasforma nell’opportunità di scaricare tutto e subito, senza dosare le energie. Ammesso che la band abbia mai l’intenzione di risparmiarsi.
Su una formazione che prevede Appino, per l’occasione con i baffetti, decentrato alla destra degli spettatori, Ufo al centro e il batterista Karim spesso avanzato a fare cori tra il basso e la chitarra di Francesco Pellegrini (nonché spesso a petto nudo nonostante la brezza autunnale), si capisce subito quanto la band cerchi a ogni occasione un impatto fisico con e a volte sopra il pubblico. Non si arriva allo stage diving ma ogni tanto traspare come tutti e quattro abbiano necessità e fame di una risposta immediata, di un urlo, di uno sguardo, di un tocco.
E arriva tutto: l’entusiasmo si accende subito, senza remore, senza filtri. I primi quattro pezzi arrivano da Il fuoco in una stanza, ultimo disco che ha trionfato lungo tutto un tour di cui il MEI è l’ultima tappa. E’ proprio Catene, traccia d’apertura del disco, ad aprire il set e a dare il tono: il pezzo è carico e tempestoso a dismisura, nonostante i toni in parte meditativi che riveste sul disco.
Infatti è questa, da anni, la caratteristica più forte e convincente della band: costruire canzoni che riescono a mettere insieme testi che mordono in carne viva e poi lasciarle brade in concerto, per raggiungere un divertimento animalesco, furibondo.
Arriva Il fuoco in una stanza, title track dell’ultimo disco, qui presentata sulle prime come se fosse una ballad southern rock. Ma poi urla, prende tanta vita che bisognerebbe chiamare l’esorcista. La cantilenante Il mondo come lo vorrei si trasforma in un crescendo. Sempre più aspro, sempre più torrido.
Il pubblico è già convintissimo, ma anche i più tiepidi si mettono a zompare e pogare quando arriva Andate tutti affanculo, con la presentazione di Appino che un po’ si scusa (“niente, ci tocca ancora una volta mandarvi…”). E la gente apprezza così tanto che iniziano a piovere gelati sul palco, fra le risate di Ufo che li raccoglie e li rilancia in mezzo alla folla.
L’operazione di adesione fisica al pubblico è riuscita perfettamente: il gruppo è tutt’uno con fan così convinti che correggono Appino quando inciampa su qualche parola delle canzoni.
Si chiude con Viva, conclusione perfetta e scatenata di un live che ha mostrato soprattutto il lato aggressivo della band, che è spesso curiosamente anche quello più fragile. Nel tono con cui Appino pronuncia le parole di congedo dalla manifestazione e dal tour c’è qualcosa di più del classico rammarico da fine avventura (“magari ci vediamo fra un anno, magari prima, non lo so…”). Partono i cori “se non fate l’ultima noi non ce ne andiamo”, ma se ne vanno lo stesso, perché così vuole il copione.
MEI 2018: il finale
L’ingrato compito di riempire il palco dopo gli Zen tocca ai kuTso (che però si legge con la “u” all’inglese, quindi “a” e con il “ts ” che diventa una doppia zeta. Esatto, hai capito bene). La band esegue tre pezzi tra funk e ironia, con il cantante impegnato in una performance fisico-teatrale per tenere insieme la piazza. Ma è tardi, molti sono stanchi, qualcuno se n’è andato, farsi convincere è difficile.
Ci rimette anche La Municipàl, gruppo interessante che ruota attorno ai fratelli Tundo, che ci mette una vita a fare il soundcheck e che vede le proprie canzoni, tra cui l’ultimo singolo Mercurio Cromo, un po’ disperse nell’aria faentina. In quel momento siamo rimasti sotto palco quasi soltanto io e una ventina di fattoni, mentre il resto del pubblico, stremato, siede ai lati della piazza, chiacchiera e si fa i fatti suoi.
L’attenzione torna per la chiusura di serata, che vede il curioso mix tra Rezophonic e Lacuna Coil (principalmente Cristina Scabbia) occupare in tutta la sua larghezza il palco, con un’abbondanza di cantanti e vocalist forse anche eccessiva. Anche la Scabbia da star internazionale si trasforma sostanzialmente in una corista di prestigio, per l’occasione.
Non essendo molto amanti del genere proposto dalla band di Mario Riso (e coltivando qui e là qualche sospetto sull’uso di qualche ben determinato playback di supporto), abbandoniamo la piazza. Anche perché ci siamo rimasti così a lungo che c’è il rischio che ci chiedano l’affitto.
Prima di riprendere la bici che ci riporterà in albergo (giuro) qualche considerazione sulla parte musicale dell’evento: sicuramente uno show importante, vario, notevole sotto ogni punto di vista, con delle espressioni di livello assoluto. Ovviamente gli Zen Circus, ma lì si andava sul sicuro, ma anche Colombre.
Certo, da una manifestazione che l’anno prossimo compie 25 anni forse ti aspetteresti un meccanismo complessivamente più rodato e magari qualche premio in meno, al netto delle difficoltà oggettive. Detto questo, ce ne fossero dieci di MEI all’anno probabilmente non si parlerebbe più di musica “di nicchia” per gli indipendenti. Perché questo è, oggettivamente, quanto di meglio la musica italiana possa offrire oggi. E perché questo è e rimane il palco migliore che la musica indipendente possa ottenere oggi. Non è poco.
I Figli dell’Officina @ MEI 2018
Lastanzadigreta @ MEI 2018
Ritmo Tribale @ MEI 2018
Motel Noir @ MEI 2018
Edoardo Bennato @ MEI 2018
Celeb Car Crash @ MEI 2018