Fino al 16 marzo 2024 la Fondazione ICA Milano ospita, nella sede di via Orobia 26 (zona Ripamonti) I have lost and I have been lost but for now I’m flying high, una mostra di opere d’arte di Michael Stipe, già cantante dei R.E.M. e ora più concentrato su espressività e concetti artistici di altra natura (anche se si parla di un suo disco solista in arrivo ormai da qualche tempo).

Si tratta di un’esposizione abbastanza concentrata, con opere fotografiche e altre più materiali ma anche più concettuali, che offrono l’opportunità di dare uno sguardo al modo di pensare di uno dei cantanti migliori e più originali della propria generazione, uno di quelli che sono riusciti a lasciare il segno sia con le canzoni sia con un modo di porsi sempre molto lontano dai canoni della rockstar che, anche suo malgrado, è diventato a partire dagli anni Ottanta.

Piccole teste di gesso, cappellini, sedie di plastica, vasi di ceramica popolano le stanze di una mostra suggestiva e a proprio modo surreale. Non ci sono evidenti associazioni con la vita di Stipe, almeno non in superficie. E le attinenze con la musica arrivano principalmente dai nomi scritti sui vasi (commovente in certo modo quello di Caroline Wallner dedicato a Sinead O’Connor), oppure sui molti portaritratti che affollano un tavolo.

Poi c’è la foto dello stesso Stipe, con barbona in stile profeta, le foto di Tilda Swinton, oppure un ritratto di Bono Vox con Christy Turlington a far cenno vago e quasi casuale allo stardom al quale l’artista appartiene. Ma tutto e sempre con una certa timidezza.

In un’intervista con il curatore della mostra Alberto Salvadori, Michael Stipe commenta:

Alla fine è sempre un po’ un autoritratto, e la cosa è imbarazzante. Quando scatto catturo un momento e, auspicabilmente, un’energia tra soggetto e fotografo. In un certo senso si tratta di concentrarsi sulle cose belle della vita, riflettendo davvero la sua magnificenza. Stiamo attraversando un momento storico estremamente difficile sotto molti punti di vista: politico, ambientale, spirituale eccetera. Mi sembra che tutti siamo alla ricerca di qualcosa di positivo, all’avanguardia, che assomigli alla speranza. La mostra è questo per me, volevo presentare qualcosa che fosse edificante. Come artista sono già abbastanza pop, ma per pop intendo qualcosa che sia inclusivo e comprensibile a tutte le persone

Molto centrale nella mostra è anche il testo del 1927 Desiderata, di Max Erhmann, poesia in prosa che ha avuto una storia travagliata e diversi momenti di fortuna. Utilizzata come inno motivazionale sia dalla chiesa protestante sia dagli hippy degli anni Sessanta, è stata più volte dimenticata, attribuita ad altri, poi riscoperta e riportata alla luce e al suo autore originale. Stipe la proietta a rotazione su un piccolo schermo all’interno di una stanza, e ne riporta i versi su cappellini di lana buttati a terra in un’altra stanza, come fossero una sorta di rivisitazione più ottimista dei marchi commerciali che popolano i nostri copricapi.

Nella stessa intervista, l’ex frontman spiega ancora:

Vedi, per me realizzare la mostra è stato allontanare il mio cervello pensante e il mio ego per un tempo sufficiente affinché il mio istinto prendesse il sopravvento. Nel fare le mie scelte non mi sono chiesto: “E’ abbastanza buono? Sono abbastanza bravo? Questo mi rappresenta?” L’ho fatto e basta. E adesso guardo il risultato e penso: sì, rappresenta bene il mio punto di vista. Rappresenta il mio pensiero. E il mio cervello pensante e il mio ego non hanno ostacolato il mio istinto. Mi fido molto del mio istinto, e non mi fido molto del mio cervello pensante, perché sono come tutti gli altri esseri umani, pieno di insicurezze e preoccupazioni, e ho un ego smisurato, e tutto questo mi ostacola

Si può cercare vanamente, nell’esposizione, qualche riferimento ai lunghi anni con la band, trovandolo soltanto e forse nel titolo, che potrebbe essere benissimo quello di un album del gruppo, se non fosse così poco sintetico. Ma il senso di queste opere non sta nel cercare, piuttosto nel trovare un senso anche senza sforzarsi. E come sempre con l’arte contemporanea si tratta di un senso del tutto individuale, non suggerito dall’autore, forse casuale e momentaneo.

Il senso che ho trovato io si celava oltre la mostra: nella stanza di fronte, dietro a una porta a vetri e accanto un’altra installazione appartenente alla fondazione, c’è un uomo con un giubbotto arancione (tipo operaio che aggiusta le autostrade) che si lava, a lungo e con cura, le mani. Ci fermiamo incuriositi a osservare soprattutto il display dell’installazione, questione di pochi secondi. Poi l’uomo con il giubbotto termina le proprie abluzioni, si volta, un po’ a testa bassa, si avvicina ed esce dalla porta laterale. E in una frazione di secondo ci rendiamo conto che era Michael Stipe, in persona. Sfuggente, ci ha guardato per un attimo ed è passato oltre. Giusto il tempo di lasciarci un’impressione permanente, in un contesto così fugace e involontario.

Nonostante tutta la sua falsità, il lavoro ingrato e i sogni infranti,
questo è ancora un mondo meraviglioso.
Sii allegro.
Fa’ di tutto per essere felice
.

max erhmann, “desiderata” (1927)

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